Foto di David Graham, AP Photo, via LaPresse 

Il Foglio sportivo

Tutti pazzi per Daytona: il "World center of racing"

Carlo Genta

È l'alterego a stelle e strisce di Le Mans. Un viaggio sulla pista dove correvano Paul Newman e Steve McQueen tra grill, amache, frigoriferi in cerca di nuovi attori protagonisti

America. Bordo dell’Oceano. In un silenzio quasi ossessivo all’alba cominciano ad arrivare persone. Con la tavola da surf, scalzi, correndo o passeggiando, pescando. O semplicemente guardando le prime luci. I margini degli edifici e tante piscine vicine al mare sono corrose, mordicchiate da troppi uragani. I palazzi hanno i colori sbiaditi di fine gennaio, anche se in Florida il nostro concetto di inverno è molto relativo. Ci si sveglia presto e tutto scorre calmo. Guardi. Pensando che a undici miglia di distanza da quel gradino c’è un altro pianeta che diventa opposto in certi giorni dell’anno. Come ora. C’è una tribuna con 147mila seggiolini colorati. Se la vedi vuota sembra costruita con il Lego. O, per chi ha almeno una quarantina di anni, con i pallini del Master Mind, quel giochino di memoria dove si dovevano indovinare le combinazioni di colore.

 

Davanti a quel muro colorato, impressionante, c’è un disegno di asfalto da mente contorta con delle curve inclinate di 31 gradi con il 45 per cento di pendenza. Scalarle a piedi è quasi impossibile. Il centro della tribuna è dominato da un gigantesco parallelepipedo di vetro sopra il quale sta scritto “World center of racing”. Così è il teatro, la scatola di quella follia sull’Oceano che è la 24ore di Daytona, l’alter ego a stelle e strisce di Le Mans. E questo dice già se non tutto, almeno tanto. 

 

Sì perché gli americani hanno un modo loro di intendere lo sport, corse in macchina comprese. Il mondo va avanti veloce e loro lo aspettano fermi davanti ai loro monumenti un po’ sdruciti dal tempo in cui rughe, screpolature, anacronismi sono parte integrante dei monumenti stessi e come tali vanno protetti. Con tutto questo il progresso deve scendere a patti. Nei Sessanta e Settanta passeggiando nel paddock che è identico da allora, incrociavi gli occhi ghiacciati di Paul Newman o quelli da mascalzone di Steve McQueen con la sua tuta bianca con la banda laterale blu-bianca-rossa: tutto questo è poi diventato moda, letteratura, leggenda glamour. Anche cinema.

 

“Le Mans 66” è un gran bel film recente. Si chiude con l’edizione di Daytona del 1967 in cui tre Ferrari tagliano il traguardo con una parata molto americana: era la rivincita sfacciata dell’anno nero precedente nel quale la Ford preparata da Carol Shelby aveva battuto la Rossa qui, a Sebring e a Le Mans, cioè nelle tre corse-monumento che erano l’ossessione di Drake Enzo. 

 

Prima grande medaglia dell’allora giovanissimo ingegner Mauro Forghieri che il Capo aveva spedito a gestire il reparto corse con la laurea ancora fresca di inchiostro. E anche quella di Ford era una vendetta: Ferrari li aveva usati per tirare il prezzo della cessione del Cavallino alla Fiat. Storie che più o meno si riannoderanno più avanti, vedrete, quando sarà il caso di ricordare i motivi per i quali quella che inizia ora e qui è forse la stagione più importante della storia dello sport dell’Endurance. 

 

Questo per dire che Paul e Steve correvano con altre macchine, certo impegnative, cattive, ma diverse ovviamente nelle prestazioni ma pure nelle dimensioni. Ecco, i circuiti americani sono maledettamente stretti per le supercar di oggi. Vi dicevamo del banking, le paraboliche: Derek Bell raccontava che era come guidare dentro a una scodella. Sembrano larghe, potrebbero passarci quattro macchine insieme. Ma hanno un solo sentiero, quello centrale: mettere le gomme fuori di lì vorrebbe dire perdere aderenza con tutti e rischi e le conseguenze del caso. E bisogna tenere conto che quel sentiero bisogna percorrerlo con il pedale dell’acceleratore affondato nel pavimento, altrimenti si paga nella parte mista, lenta e facile del circuito. 

 

Il tutto succede dentro a un traffico da ora di punta: per questa edizione numero 61 ci saranno altrettante auto, tra prototipi e GT, lungo una pista di appena quattro chilometri. Immaginare di viaggiare a trecento all’ora in tangenziale rende abbastanza l’idea. A proposito di americani e tradizioni loro: la gara più importante dell’anno, questa, è anche la prima della stagione delle corse (il campionato Imsa) con macchine nuove, diverse, fresche di rodaggio e piloti magari pure un filo arrugginiti. E si corre al buio per più o meno 13 delle 24 ore, essendo gennaio, con la temperatura che di notte può scendere parecchio e, se non vi basta ancora, con il divieto di preriscaldare le gomme con le termocoperte: nei primi tre-quattro giri come pattinare sul ghiaccio. Come giocare la finale playoff prima della stagione regolare. 

 

That’s America, ragazzi: qui il motorsport è a carne viva, è combattimento corpo a corpo e non sono vuote iperboli. È ancora lo spettacolo di un rischio fin eccessivo ai nostri tempi, a proposito degli anacronismi di cui sopra. La morale è che qui negli States bisogna stare in pista e in gara, perché bandiere gialle e safety car piovono forte e anche in modo maliziosamente strategico con l’obiettivo tenere vivo lo show fino all’ultima ora, se possibile minuto. Questo vuole il pubblico. E la gente e l’ambiente delle corse americane sono qualcosa di profondamente diverso da quello cui siamo abituati noi in Europa, specie nella plastificata e blindatissima Formula 1. Opposto per certi aspetti.

 

In questo preciso momento, dentro a un vento caldo e umido che sbatte qua e là parecchie nuvole, si vede una specie di carovana da film western: arrivano i camper per andare a occupare i prati con l’erba tagliata al millimetro che pare disegnata col pennarello. Poi scaricheranno i loro tavoli, grill, amache, frigoriferi, in qualche caso vecchi divani da vecchio salotto. E lì si appoggeranno per tre giorni, felici di esserlo con le loro ritualità da happening e tuffandosi in questo. Perché qui si può.

 

I paddock non sono blindati, le macchine non vengono velate e oscurate, i piloti non li vedi solo col casco in testa ma sono parte mescolata a un’unica tribù. I sentieri vengono aperti in vari momenti. È obbligatoria una sessione autografi nella quale vengono piazzati tavoli davanti ai motorhome e si firmano foto, magliette, cappellini, tutto quello che vi viene in mente, pelle compresa. Poi appena prima del via della corsa, con le macchine già schierate, le tribune si rovesciano sul rettilineo: tutti in pista a fare fotografie e selfie con chi di lì a poco schizzerà via, subito dopo la cerimonia sacra dell’inno cantato a cappella. 

 

A proposito di cerimonie. A Daytona se ne celebra una particolare. Una cosa che vedremo, al terzo giro della 24 Ore di Daytona, saranno i fan che si alzano e salutano la gara alzando il braccio e mostrando il numero 3 con le dita. Si tratta del numero di gara di Dale Earnhardt senior, il più leggendario pilota di corse Nascar di sempre. Earnhardt morì proprio a Daytona nel 2001, facendo quello che aveva fatto per tutta la carriera, ovvero a sportellate alla massima velocità. Stava coprendo le spalle ai suoi compagni di squadra, uno dei quali era Dale Earnhardt junior, suo figlio.

 

Dale stava tenendo dietro gli inseguitori. Finì contro il muro all’ultima curva, dell’ultimo giro della 500 miglia Nascar. Quella che, come aveva già annunciato, sarebbe stata la sua ultima corsa. Un incidente apparentemente banale ma, senza il collare Hans e con le cinture di sicurezza che a quanto pare non erano del tutto efficaci, rimase ucciso sul colpo. La notizia fece il giro dell’America in pochi minuti. Jeff Gordon, che ne era stato rivale in modo quasi violento, ne ha portato in trionfo la bandiera con il numero 3 dopo avere vinto il campionato. In segno di rispetto. Infinite le storie lungo sessantuno anni. Ma quelle che si scriveranno sabato?

 

Per la prima volta sulle piste americane ecco le nuove regine, le hypercar: qui le otto di Porsche, Bmw, Cadillac e Acura. Ma nella prossima tappa americana che coinciderà con la prima del Wec (il Mondiale Endurance) a Sebring, ecco per la prima volta la nuova signora in rosso, quella in missione: tornare dopo cinquant’anni per rivincere Le Mans, l’edizione del centenario. Quella in cui ci saranno proprio tutti. Isotta Fraschini compresa. La gara del secolo insomma, o qualcosa di simile. A proposito di Ferrari e di Daytona: altro capitolo. Il debutto assoluto della nuova GT, la 296, quella che prende il posto (per ora solo nelle gare americane) della 488, semplicemente la macchina più vincente della storia del Cavallino.

 

In pista ce ne saranno quattro e una di queste ha un cuore e una livrea azzurra, venata di verde. Il team Cetilar Racing è l’unico completamente italiano che partecipa al campionato americano, dai quattro piloti all’ultimo dello staff. Col numero 47 correrà, tra gli altri Antonio Fuoco, uno dei sei cavalieri scelti per l’hypercar. Pilota e commodoro un imprenditore pisano con i riccioloni e in sorriso coinvolgente. Si chiama Roberto Lacorte. Ma perché lo fa? “È la massima espressione del porsi obiettivi, fare un programma, costruire una squadra e raggiungerlo. Cuore e tecnologia. La corsa mi nutre l’anima. Specie nell’endurance, è sfida con gli altri e con se stessi. Poi quando vai sul podio la cosa più bella è guardarsi indietro e apprezzare la strada che hai fatto per arrivare lì. Senza retorica: come la vita”.

 

Giorgio Sernagiotto, pilota professionista trevigiano, è un vecchio lupo nel mare di queste corse. E del lupo porta una bella barba da quarantenne e la capacità di farti capire come è Daytona quando la guardi negli occhi dall’abitacolo. “Non è una pista difficile dal punto di vista tecnico. Lo diventa se ti spaventi. Sul banking non alzi mai il piede: il problema è che quando te lo vedi davanti sembra di andare verso un muro. Il misto è lento su un asfalto consumato e sbrecciato come piace agli americani. Curva 1 è un casino: arrivi a tutta in fondo al rettilineo e vedi un piazzale: dritto finisci sull’ovale e devi indovinare ogni volta la traiettoria. Divertente se si vuole”. Per questa edizione previsto record di pubblico: l’America non vede l’ora di stare sveglia per una notte. 

P.s. Non puoi venire a Daytona e non fare un salto a Orlando, a un’ora da qui, per vedere Paolo Banchero giocare con i Magic. Ma questa è un’altra storia… 

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