Quando l'Italia riconquistò Sanremo. La Classicissima di Dancelli

Marco Pastonesi

Oggi si doveva correre la Milano-Sanremo. Cinquant'anni fa un italiano riuscì a riconquistare dopo 17 stagioni la classica di primavera. Zilioli, Soave, Simonetti, Colnago, Della Torre (e Dancelli) ricordano la corsa

Cinquant’anni fa: 19 marzo 1970. Milano, Castello Sforzesco, 238 corridori, pronti, partenza ufficiosa, ore 9.15, trasferimento alla Chiesa Rossa, 288 chilometri, partenza ufficiale, ore 9.27, via. La Classicissima, il Mondiale dei velocisti, la corsa che comincia l’ultimo giorno d’inverno e finisce il primo giorno di primavera. La Milano-Sanremo.

 

Al raduno si respira – da sempre – un’aria da libri di storia e mappe di geografia, si ritrovano la parrocchia del ciclismo e la famiglia della bicicletta, e se non è il Capodanno del calendario a pedali (in Italia si è già corso il Trofeo Laigueglia: volata, Michele Dancelli sul francese Cyrille Guimard; in Francia la Parigi-Nizza, primo Eddy Merckx), è come il primo giorno di scuola, la prima della Scala, il ballo delle debuttanti. Qui si rinnovano i trucchi del Diavolo Rosso (nel 1907, la prima edizione) e la potenza di Costante Girardengo (sei vittorie più tre secondi posti e due terzi nonché una squalifica stradiscussa tra il 1915 e il 1927), lo stupore del francese Eugène Christophe convinto di avere sbagliato strada (nel 1910) e lo zabaione di Cesare Del Cancia (sei, sette, forse otto uova sbattute con tanto zucchero nel Marsala di una damigianina siciliana, preparatogli dalla mamma e portatogli dal fratello Cecco) grazie a cui volò fino al traguardo (nel 1937). Una formidabile macchina del tempo. Qui si recitano liste di partenza, qui si declinano ordini di arrivo, qui si ricordano poesie radiofoniche come per l’edizione del 1946, primo Fausto Coppi, in solitudine, poi “in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo”. Un potente camion della memoria.

 

Scaramucce, tentativi, bagarre. E cadute: Vittorio Adorni addirittura tre volte. A Pozzolo Formigaro, 92 chilometri dalla partenza e 196 all’arrivo, si muove Aldo Moser per un traguardo a premi: meglio un uovo oggi... A Novi Ligure, tre chilometri dopo, nasce la fuga buona. Evadono 18 corridori: sette belgi (Rik Van Looy, il quasi omonimo Herman Van Loo, Walter Godefroot, i fratelli Eric e Roger De Vlaeminck, Eric Leman e Jozef Huysmans), due olandesi (Gerben Karstens e il campione del mondo Harm Ottenbros), un tedesco (Rolf Wolfshohl) e otto italiani (Moser, Franco Bitossi, Italo Zilioli, Dancelli, Carlo Chiappano, Adriano Pella, Mauro Simonetti e Luciano Soave). Dietro, nel gruppo, sorpresi e interdetti, incerti e impotenti, anche Merckx, Felice Gimondi, Gianni Motta, Patrick Sercu, Jan Janssen, Raymond Poulidor... Una partita di scacchi a 50 all’ora.

 

Zilioli: “Davanti eravamo in due della Faema, compagni di Merckx. E io ero l’unico italiano della squadra. La nostra tattica era semplice: tutti per Merckx, io relativamente libero. Così all’inizio contribuii a portare via la fuga. Un vantaggio di un minuto, due, tre. Cambi regolari. Si girava”. Soave: “Dovevamo farlo, c’era vento. Per me era un’occasione d’oro. Franco Cribiori, il mio direttore sportivo alla Dreher, mi aveva detto che avevo il permesso di entrare in una fuga prima del Turchino, altrimenti dopo mi sarei dovuto dedicare a Sercu. Ci misi tutto l’impegno possibile e immaginabile: per entrare nella fuga avrei rincorso anche le moto della polizia”. Simonetti: “Avevo 21 anni, ero al primo anno da professionista, correvo per la Ferretti, il mio direttore sportivo era Alfredo Martini. Quando vidi accanto a me Van Looy, il mio idolo, il mio mito, due volte campione del mondo, vincitore anche della Sanremo addirittura nel 1958, neppure ci credevo, anzi, quasi mi impaurii. Appena gli fu possibile, Martini mi affiancò con l’ammiraglia e si raccomandò: ‘Non darti tanto da fare, è lunga, lunghissima, non finisce più’. Ma non volevo sembrare quello che faceva il furbo, in pianura non avevo problemi, e feci la mia parte”. Al Passo del Turchino, 532 metri di altitudine, 143 chilometri dalla partenza e 145 all’arrivo, Bitossi passa primo su Dancelli, il vantaggio è salito a 4’51” sul gruppo, poi la discesa su Voltri, la Riviera, i capi. Zilioli: “Era ancora lunga. Ma potevamo crederci. Il vantaggio aumentava e noi non ci dannavamo. Allora cominciai a risparmiarmi, a saltare qualche cambio, a immaginare i possibili scenari”. Simonetti: “Il tempo era buono, faceva fresco, ma c’era il sole”. Dancelli: “La compagnia era ingombrante. Prima o poi qualcuno avrebbe attaccato. Io ero un istintivo, un impulsivo, forse un anarchico. E sapevo che, prima o poi, avrei attaccato. Meglio prima che poi”.

 

Succede a un altro traguardo volante, quello di Loano, 218 chilometri dalla partenza e 70 dall’arrivo. Soave: “In palio, una medaglia d’oro offerta, credo, da un ristorante o un albergo”. Chiappano, gregario della Molteni, la squadra di Dancelli, tira la volata al suo capitano. Qui il primo capolavoro di Chiappano: strategico. Soave: “Chiappano sprintò, poi si scansò, smanettò sul cambio, mostrò di avere un problema – o forse finse di averlo – al cambio, alzò il braccio per chiedere l’intervento dell’ammiraglia, e creò il vuoto”. Dancelli prosegue, allunga e va. Zilioli: “Venti metri di vantaggio, che diventarono 50, 100, 200. Ci si guardava, ci si studiava, si aspettava che qualcuno prendesse l’iniziativa, soprattutto i belgi”. Si racconta che Van Looy corresse solo per far perdere Merckx: il vecchio e il giovane, l’Imperatore e il Cannibale, lotte di campanile ingigantite a guerre mondiali. Ma anche gli altri belgi, ognuno per sé, divisi da rivalità, gelosie, invidie, sfide fiamminghe ereditate e poi nate, alimentate, moltiplicate.

  

Qui il secondo capolavoro di Chiappano: diplomatico. Zilioli: “Chiappano mi pregò di non inseguire Dancelli, di farlo per amicizia e poi anche per patriottismo, erano 17 anni che un italiano non vinceva la Milano-Sanremo, dalla vittoria di Loretto Petrucci nel 1953, e questa corsa sembrava diventata stregata, maledetta, attraversata da un sortilegio diabolico. Mi convinsi che il compito di organizzarsi e raggiungere Dancelli toccasse ai belgi, e lasciai fare. Merckx correva per vincere, sempre: forse fin a lì mi lasciò fare, voleva vedere come giocassi le mie carte, la verità è che non me le giocai”. Simonetti: “Chiappano mi disse di non inseguire, di farlo per l’Italia e gli italiani, senza promettermi soldi o altro. Ero un giovane, accettai”. Soave: “Chiappano mi fece cenno di lasciare le cose così, a me bastava rimanere in quel gruppetto, c’era ancora tanta strada”. Dancelli: “Tanta strada e neanch’io pensavo di farcela. Ma valeva la pena di provarci”. Al Albenga, 11 chilometri più avanti, Dancelli ha già 1’06” di vantaggio.

  

Dietro Dancelli, l’ammiraglia della Molteni ribolliva. Dentro l’ammiraglia, il direttore sportivo Giorgio Albani, il patron Pietro Molteni e il meccanico Ernesto Colnago scoppiettavano. Colnago: “La sofferenza e l’agitazione crescevano a ogni chilometro. Albani urlava a Dancelli di mangiare zucchero, Molteni si eccitava e lo incitava, io pregavo che Michele non avesse un guaio meccanico o una foratura. E, per qualsiasi emergenza, ero pronto a saltare fuori dalla macchina come un centometrista dai blocchi di partenza. Anzi, poi mi misi la bicicletta di scorta su una spalla”. Mele, Cervo, Berta: qui Dancelli vanta un tesoro di 3’30”. Il gruppetto degli inseguitori si frantuma, si sbriciola, ne fuoriesce Eric De Vlaeminck, ma per poco, poi è attacchi e contrattacchi, battaglie stradali e guerriglia ciclistica, finché rimangono soltanto in sei: Leman, Karstens, Wolfshohl, Godefroot, Simonetti e Zilioli. Intanto il gruppone prova a colmare il distacco. Alberto Della Torre: “Ormai era troppo tardi. Noi della Filotex, prima, con Bitossi davanti, correvamo sulle ruote, poi, con Bitossi ripreso, la corsa era andata”. Non c’è la Cipressa, ma il Poggio. Colnago: “Molteni non stava più nella pelle. Un anno prima aveva dovuto digerire un dispiacere enorme, quando proprio Dancelli era stato acciuffato ai piedi del Poggio. Stavolta lo spingeva con la forza della sua passione e della sua voce. Al massimo del desiderio, sbottò: ‘Se te ghe la fet, te regali el stabiliment’. Sapevamo che era un uomo generoso, non sospettavamo che lo fosse così tanto”. Dancelli: “Pensavo soltanto a pedalare. In cima al Poggio mi dissero che avevo due minuti di vantaggio. Solo a quel punto cominciai a credere nella vittoria. E mi buttai giù in discesa a capofitto”.

 

Non era finita. Simonetti: “A un chilometro e mezzo partii a tutta. Volevo il secondo posto. Ero ancora secondo alla fontana. Venni ripreso a 100 metri dall’arrivo”. Primo Dancelli, a una media di quasi 44 orari. Poi, a 1’39”, in volata, secondo Karstens, terzo Leman, quarto Zilioli, quinto Godefroot, sesto Wolfshohl. E Simonetti: “Settimo. Ma ottavo, primo del gruppo in volata, fu Merckx. Se mi avessero detto che sarei arrivato davanti a Merckx, avrei fatto la firma”. Sul palco, Dancelli in lacrime commosse l’Italia: “La gioia, la fatica, l’emozione. Il mondo addosso. Ma ancora la forza per dire di essere felice in particolare per chi non mi aveva calcolato campione”. Centocinquantunesimo e ultimo, a 3’50”, l’olandese Cees Rentmeester.

 

Ma una corsa non finisce mai dopo il traguardo, continua nei racconti, nelle spiegazioni, nei segreti. Zilioli: “Chiappano venne nel mio albergo. ‘Ho visto come ti sei comportato – mi disse – e ti ha visto anche Molteni, che cosa vuoi?’. Che significava ‘quanto vuoi?’. Risposi che mi andava bene così, non avevo inseguito Dancelli per rispetto e patriottismo. E aggiunsi che magari Dancelli avrebbe potuto ricambiarmi il favore. L’occasione ci fu proprio quell’anno, nel Giro del Lazio. In fuga, quasi dalla partenza, ci trovammo io e lui. Una follia, ma di quelle belle. A -70 dall’arrivo Michele mi pregò ‘portami all’arrivo’ e mi giurò ‘non faccio la volata’. Così tirai tutto il tempo finché, a -10, Dancelli mi disse che aveva parlato con Albani e Albani... Insomma, fece la volata e vinse. Peccato”.

 

Intanto, sulla strada del ritorno, Colnago incontra Bruno Raschi, “il Divino”, inviato e firma – la più prestigiosa – della Rosea, in un albergo a Laigueglia per la cena: “Con la sua macchina per scrivere Olivetti, Raschi aveva appena dettato l’editoriale in cui paragonava la bicicletta di Dancelli – una Colnago, per amor di precisione – a un fiore. E mi disse che un fiore poteva essere il mio nuovo logo al posto dell’aquila. La prima proposta fu per un giglio, ma il giglio è legato a Firenze e alla Toscana. La seconda fu per un trifoglio. Così nacque l’asso di fiori: ‘Asso, perché tu sei un asso tra i meccanici, e di fiori, perché il fiore è il seme che fa per te”.

 

“La Gazzetta dello Sport” titolò su due righe, in stampatello nero e cubitale: “Dancelli / un italiano a Sanremo”. Di spalla l’intervista: “E adesso dicano pure che sono matto...”. Di taglio: “Zilioli: ‘Quel che ha fatto lui potevo farlo io’”. “Questo è il giorno di Dancelli, come tutti e più di tutti, aveva lungamente sognato e vagheggiato – scrisse Bruno Raschi, il Divino, la firma più prestigiosa della Rosea -. Ora è fatta. Possiamo ben dire che il trionfo è stato germinato dall’ira. Dobbiamo pensare che Michele Dancelli, anni ventotto, bresciano di Castenedolo, traesse oggi la forza e lo spirito delle endemiche virtù della sua gente. È perfettamente giusto che a distruggere il mito negativo della Milano-Sanremo sia stato un grandissimo agonista, un corridore leonino come lui”. Ancora Raschi: “Al di là della linea, il ragazzo è finito dentro un assedio bene addestrato di carabinieri che l’hanno sottratto al calamitoso assalto della folla. Nel gran bailamme, ci è parso che i carabinieri l’arrestassero ed arrestassero insieme con lui la vittoria per troppo tempo latitante”.

 

Fu un numero, quello di Dancelli. Fu impresa e trionfo, fu lacrime e sangue, fu un giorno di gloria e non la gloria di un giorno, perché fu epica ed epopea. Cinquant’anni dopo, ancora qui, tutti, soprattutto lui, con la pelle d’oca. 

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