Bicicletta da mostrare

È nata nobile, è stata utilizzata da ricchi e aristocratici, è diventata contadina e operaia. Ora è un oggetto di culto che viene esposto in una banca. Lo strano caso delle due ruote a pedali

Marco Pastonesi

Ventotto gioielli, di più, ventotto tesori. Li hanno sistemati nel piano sotterraneo della banca: il più protetto, il più prezioso, il più ricco. Però non li hanno blindati: stavolta li hanno addirittura esposti. In mostra.

 

I ventotto gioielli, di più, i ventotto tesori che il Credem ostenta nel piano sotterraneo della sede principale, quella del quattrocentesco Palazzo Spalletti Trivelli a Reggio Emilia fino alla fine di aprile, non sono diademi, smeraldi o lingotti, ma biciclette: appartengono alla collezione di Giannetto Cimurri, “la Mano santa” del ciclismo. Da Gino Bartali a Fausto Coppi, da Francesco Moser a Gianni Bugno, Cimurri è stato il massaggiatore della Nazionale italiana per 34 anni, ha vissuto 74 campionati del mondo fra strada, pista e cross, 40 Giri d’Italia e 11 Tour de France, e ha partecipato a otto Olimpiadi. Ai suoi protetti non chiedeva altro che, se possibile, una bici in regalo. E di regalo in regalo, cioè di bici in bici, si è costruito una collezione di oltre cento gioielli, di più, tesori da lubrificare, ammirare, ascoltare, raccontare. Dalla Maino di Costante Girardengo anno 1919 alla Colnago etichettata Faema di Eddy Merckx di 50 anni dopo, dalla Bianchi con cui Fausto Coppi conquistò il Gran premio di Lugano a cronometro nel 1952 alla bici spaziale con cui Francesco Moser stabilì il record dell’ora nel 1988, c’è perfino una bici in bambù originaria del Vietnam e donata da Romano Prodi al suo vecchio concittadino.

 

A quasi 202 anni dal giorno (26 giugno 1818) in cui Karl Friedrich Christian Ludwig Freiherr Drais von Sauerbronn, eclettico barone tedesco con slanci democratici e curiosità creative, brevettò un mezzo a due ruote con manubrio e sella, ma senza pedali, ribattezzato in suo onore draisina, la bicicletta continua a stupire, sorprendere, incantare. Non c’è giorno in cui qualcuno non si inventi un viaggio o un record (oggi, 28 febbraio, Omar Di Felice comincia il suo tentativo di attraversare il deserto del Gobi, oltre 2mila chilometri, in Mongolia: una prima assoluta invernale con temperature che potrebbero scendere a -40 gradi), non c’è giorno in cui un’amministrazione locale non inauguri un sistema di noleggio gratuito o di percorso dedicato, non c’è giorno in cui un artigiano o un’azienda o un’industria non perfezioni un dettaglio nel design o nella tecnologia, non c’è giorno – anche, purtroppo – in cui sulle strade non si registri un ferito, un morto, un martire a pedali. La più recente tendenza sembra essere quella di un ritorno alle origini: nata da un nobile e subito adottata da ricchi e aristocratici, poi diventata contadina, operaia e popolare, oggi la bici è una materia di religione, un oggetto di culto, una voce di economia.

 

“La bicicletta – sostiene Stefano Pivato, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Urbino e autore di “Storia sociale della bicicletta” – appartiene al futuro. Non consuma, non inquina, non occupa. Ha e porta rispetto. Fin dalla nascita si rivelò all’avanguardia: quadruplicò la velocità umana, nel giusto equilibrio fra tempo e spazio”. Fra alti e bassi, l’evoluzione è continuata. “Oggi il boom – spiega Pivato – spetta alle biciclette e anche ai monopattini elettrici. Strani esseri. Se per gli anziani la pedalata assistita, o sostituita, può essere ammessa perché consente di continuare a fare quello che non è più possibile fare a forza di gambe, per i giovani, per i ragazzi, ma anche per gli adulti, è un uso incomprensibile, una sorta di ermafroditismo”.

 

La bici è business. “Una nuova economia delle due ruote – propongono Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini, autori di “Bikeconomy” – Tra uso quotidiano e diffusione turistica, la bici produce ricchezza in maniera sana e pulita. Finalmente ce ne siamo accorti anche in Italia”. E ogni occasione è buona per presentare invenzioni e creazioni.

 

Come farà Ernesto Colnago, 88 anni, forse la più prestigiosa firma del Made in Italy: venerdì 20 marzo, alla vigilia della 101esima edizione della Milano-Sanremo, a Milano, nella sede del “Corriere della Sera”, Coronavirus permettendo, presenterà un nuovo modello, prodotto in 50 esemplari numerati, nel ricordo della vittoria di Michele Dancelli nel 1970 proprio su una bici in acciaio fabbricata e preparata dal “sciur Ernesto”. “Quella sera – ricorda Colnago – Bruno Raschi, penna principe della ‘Gazzetta dello Sport’, detto il Divino per l’arte della scrittura, mi propose di adottare l’asso di fiori come simbolo delle mie bici. ‘Ti porterà fortuna’, profetizzò”. Stavolta il “fior di bici” sarà in carbonio, con un colore speciale che abbina oro e nero, la massima cura nei particolari. Una “Ferrari a due ruote” che costerà la bellezza di 15mila euro. Ed è facile prevedere, per queste 50, il “sold out”.

 

C’è un altro settore che riempie i cuori e svuota i conti: le biciclette eroiche. “Devono rispondere a quattro requisiti – dice Giancarlo Brocci, l’inventore dell’Eroica, la prima, l’originale, la più importante delle manifestazioni del ciclismo d’epoca, quella che si celebra la prima domenica di ottobre a Gaiole in Chianti (e che oggi è riprodotta dal Giappone alla Gran Bretagna, dal Sudafrica alla California) – : costruzione entro il 1987, gabbiette ai pedali, cambio al telaio e fili esterni. Solo così si può partecipare”. Più una quota di iscrizione che va da 75 a 100 euro (e la maggioranza degli Eroici arriva dall’estero). Il dorsale è diventato il segno di appartenenza a un mondo, uno stile, una filosofia. Ancora Pivato: “Manifestazioni come L’Eroica, la Francescana, l’Intrepida, la Mitica, ormai dovunque, interpretano un pensiero molto diffuso, quello per il rispetto dell’ambiente, il piacere del mangiare e del bere, la difesa della natura, la lentezza, almeno saltuariamente, del vivere, e soprattutto fanno riemergere quel sentimento di nostalgia che è la caratteristica più forte della bicicletta. Perché la bicicletta ispira la nostalgia, una nostalgia particolare, non voglia di passato, ma proiezione nel futuro con una certa dose di tradizionalismo. Il ciclismo è fatto così: è uno sport antico che mal sopporta eccessi di modernità, è un pezzo di passato che sta nella modernità con il gusto della nostalgia”.

 

A metà fra avanguardia e nostalgia, strada e sterrato, maglia supertecnica e di lana, c’è il fenomeno “gravel”, ghiaia. Nate negli Stati Uniti come via di mezzo tra bici da corsa e mountain bike, le “gravel” si sono imposte come i mezzi ideali per affrontare pavè e muri. “C’è chi si allena quasi come un professionista – dice Paolo Tagliacarne, fondatore di Turbolento Thinkbike, una società ciclistica milanese così sensibile alle nuove tendenze addirittura da anticiparle – per partecipare Parigi-Roubaix, Giro delle Fiandre o Liegi-Bastogne-Liegi riservate agli amatori. E su queste bici, più comode e sicure, cerca di coronare i suoi sogni di gloria”.

 

In Italia l’appuntamento più desiderato è la Maratona dles Dolomites (quest’anno si corre domenica 5 luglio): tre percorsi (55, 106 e 138 km, su e giù per il Sellaronda più Giau, Falzarego e Valparola), 10mila iscritti (ma le richieste sono più del triplo), al pronti-via da Alex Zanardi a Linus, dai Marzotto ai Barilla, da Sofia Goggia e Dorothea Wierer. La maratona dles Dolomites (il marchio è in ladino, la lingua della Val Badia) sta al ciclismo come la Maratona di New York sta al podismo, e il suo inventore-sacerdote, Michil Costa, ogni anno offre un tema e poi teorizza. Nel 2019 è stato “domani”: “Quando penso al domani penso a cose belle, penso a Greta Thunberg, che a 15 anni si è fatta portavoce di una Madre Terra che sta soffrendo troppo, e che è stata seguita da migliaia di giovani in tutto il mondo. Quando penso a domani penso ai passi dolomitici chiusi al traffico motorizzato – senza fantomatici gallerie che bucano il ventre della terra – e alle tante persone che all’ombra delle Dolomiti patrimonio dell’umanità, potranno godere del silenzio e della bellezza”. E di una quota di iscrizione di 131 euro.
Ecco perché le bici finiscono in banca. Il mitico Giannetto lo avrebbe mai detto?

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