Muhammad Ali dovrebbe essere materia scolastica

Marco Pastonesi

In “What’s my name: Muhammad Ali”, il documentario di Antoine Fuqua (Sky Arte, venerdì 21, ore 21,15) c'è tanta boxe, tante parole, tanta storia, molto mai visto, soprattutto il mondo di Clay

Se fosse stato una poesia: “Me we”, io noi.

 

Se fosse stato un poema: “Arrivammo in catene, arrivammo in miseria. Il nostro dolore e le nostre pene fanno parte della storia. Arrivammo in catene, ricordarlo dobbiamo, perché quello, e quello soltanto, spiega ciò che siamo. Arrivammo in catene, arrivammo come bottino, del profitto degli schiavi vi siete compiaciuti, sotto i vostri stivali noi siamo cresciuti. Arrivammo in catene, e il modo in cui sangue e sudore dovemmo versare macchia questa nazione che aiutiamo a costruire. Arrivammo in catene, non fummo volontari, eppure ancora oggi siamo qui tenuti prigionieri. Arrivammo in catene, vi dico: ‘Devono sparire?’. Anche se è contro il vostro interesse, non avete più scuse da proferire. Arrivammo in catene, e il prezzo chi lo pagherà finché ognuno di noi non riavrà la perduta libertà? Arrivammo in catene, e ora la vostra scelta sarà: farmi saltare le cervella o darmi la libertà”.

 

Se fosse stato un animale, allora due: la farfalla, per il suo volo, e l’ape, per il suo pungiglione.

 

Se fosse stato un’autobiografia: io sono il più grande.

 

Se fosse stato un autoritratto: io sono il più bello.

 

Se fosse stato una promessa: “Quello che farò quando lascerò il pugilato sarà prepararmi per incontrare Dio, perché Dio mi sta osservando. Lui vuole sapere come ci trattiamo l’uno con l’altro, come ci aiutiamo l’un l’altro. Questo è un test per vedere se passeremo la vita in paradiso o all’inferno. E sarà per sempre. Quella di adesso non è la vera vita. Il corpo invecchia, ma l’anima e lo spirito non muoiono mai. Quindi, quando morirò, se esiste il paradiso, io voglio vederlo. Dio ci mette alla prova osservando come ci trattiamo a vicenda e come viviamo per decidere se il paradiso è la nostra vera casa”.

 

Ma era un pugile, anzi, era il pugilato, e così, se fosse stato un match, il terzo contro Joe Frazier (“Thrilla in Manila”, 1975) o quello contro George Foreman (“The Rumble in the Jungle”, 1974).

 

What’s my name: Muhammad Ali” è il documentario di Antoine Fuqua in prima italiana assoluta su Sky Arte domani, venerdì 21 giugno, alle 21.15 (canale 120 e 400 di Sky), diviso in due parti (la prima dura 79 minuti, la seconda 76): dal furto della bicicletta regalatagli a Natale quando aveva 12 anni, che gli spalancò le porte di una palestra, fino all’accensione della fiamma olimpica ad Atlanta 1996, da tedoforo tremante e tremendamente umano, attraverso i Giochi di Roma 1960 e la guerra nel Vietnam, Malcolm X e Martin Luther King, Sonny Liston e Floyd Patterson, Dustin Hoffman e Sammy Davis Junior, Larry Holmes e Mike Tyson, Nelson Mandela e Aretha Franklin, Joe Louis e Leon Spinks.

 

Ali, che gli avversari li sconfiggeva – a parole o a sguardi – già alle presentazioni degli incontri o alle operazioni di peso o nel momento in cui l’arbitro li chiamava al centro del ring, subito prima del match, per ricordargli le regole. Ali, che quando un ragazzino gli domandò che cosa avrebbe fatto dopo essersi ritirato dalla boxe, cominciò a dormire e russare. Ali, che si concedeva lo “shuffle”, un frenetico frullare di gambe e piedi per disorientare, provocare e forse umiliare i suoi colleghi massimi, incapaci di muoversi con tanta velocità, perfino di immaginarla. Ali, che cercava la verità: “Il volto della verità è aperto, gli occhi della verità sono luminosi, le labbra della verità sono sempre chiuse, la testa della verità è onesta…”. Ali, che si era costruito un campo di allenamento senza luce e senza acqua, usava lampade a olio e una pompa a mano dal pozzo, tagliava alberi e correva nel bosco. Ali, che sosteneva che Frazier fosse come uno di quei bambolotti che si carica con una chiavetta a molla e poi va avanti, va avanti, va avanti finché non lo butti giù. Ali, che declamava “posso annegare l’acqua e uccidere un albero”. Ali, che sosteneva che ci fosse più pubblico ai suoi allenamenti che non ai match degli altri pugili.

 

Ali, che ci ha sempre messo la faccia: prima sul ring, saltando di qua e di là, prevedendo, evitando, schivando, rientrando, poi nella vita, esponendosi, dichiarandosi, schierandosi, pagando di persona (tre anni lontano dal ring per aver rifiutato la chiamata alle armi: “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”), infine ancora sul ring, giurando di ritirarsi e invece ritornando, lento e prevedibile fino alla immobilità, e ancora da missionario, ambasciatore, testimone. E lo fece per aiutare, per dare, per restituire tutto quello che aveva avuto dal talento, dalla vita, da un dio, anche dal dio del pugilato. Un uomo vero, Ali, mai dimenticato. Come in una recente mostra (“Ali” al Pan di Napoli, con il catalogo edito da Skira, 176 pagine, 38 euro) e in un recente libro (“Muhammad Ali” di Jonathan Eig per 66thand2nd, 768 pagine, 25 euro). 

 

Qui tanta boxe, tante parole, tanta storia. Molto mai visto. Commovente, divertente, sorprendente. “What’s my name: Muhammad Ali” dovrebbe essere materia scolastica. Nelle ore di arte, storia, religione, filosofia, scienze motorie e scienza della comunicazione. O come traccia per la prossima maturità. Fate voi.

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