Muhammad Ali, la vita

Giorgia Mecca

Jonathan Eig, 66thand2nd, 748 pp., 25 euro

“Il bisnonno era uno schiavo. Il nonno, che aveva sparato dritto al cuore di un uomo in una disputa per un quarto di dollaro, un assassino. Il padre era un alcolizzato, un attaccabrighe, un donnaiolo, uno che metteva le mani addosso alla moglie e una volta, fuori di sé dalla rabbia, aveva sfregiato con un coltello il figlio maggiore. Queste sono le radici di Muhammad Ali, nato Cassius Marcellus Clay Jr (il suo nome da schiavo, come lo definiva lui) e alla fine diventato uno dei più famosi e influenti uomini del suo tempo”. Comincia così Muhammad Ali, la vita, la biografia del pugile scritta da Jonathan Eig, libro dell’anno agli Sports Book Award. Per Cassius Clay, da giovane, la boxe era una vendetta, con il rumore dei pugni sperava di ammutolire voci lontane, la conversazione avuta con suo padre anni prima. “Papà, perché non posso essere ricco?”, gli chiese una volta. “Guarda qua”, rispose l’uomo, toccandogli la mano color nocciola: “Ecco perché non puoi essere ricco”. Muhammad Ali non era un santo e non era un eroe. Traditore, prepotente, maleducato, innamorato di se stesso, “se appariva immaturo ed egocentrico, è perché lo era”. Non solo si credeva il re del mondo, ma lo ripeteva ad alta voce ogni volta che ne aveva l’occasione. Poteva permetterselo, erano tutti ai suoi piedi. L’8 marzo 1971 trecento milioni di persone si collegarono per assistere al suo match contro Joe Frazier. Quel giorno tra gli spettatori dal vivo, al Madison Square Garden, c’erano Frank Sinatra, Woody Allen, Dustin Hoffman, Diane Keaton e Marcello Mastroianni. Il libro racconta tutto: gli inizi, l’incontro con Dundee e con Bundini “vola come un’ape, pungi come una farfalla”; la conversione all’islam, il rapporto con la sua pelle, con il fisico perfetto, con le donne, con l’America, “Rumble in the jungle” “Ali Bumaye”, l’inizio della fine, la polvere e gli altari. Nel corso della carriera Muhammad Ali ha preso 175 mila pugni. Il corpo non perdona, porta i segni, chiede pietà. L’arroganza non può vincere per sempre contro la fisiologia. Nell’ultimo round dell’ultimo match della sua carriera, Ali tentò di riappropriarsi della propria gioventù. Fece del suo meglio, ma i suoi ganci sinistri erano diventati innocui. Un uomo al tappeto. K.o. Il sangue scorre e il mondo continua a girare. “Aveva sempre dichiarato che non sarebbe finito come molti pugili del passato: con la bava alla bocca, rintronati, la memoria annebbiata, mettendo in mostra gli effetti di tutti quei pugni subiti per il resto della vita, come ombre in una vetrina di trofei. Ma al pari di quei pugili, neanche lui si era accorto che era proprio quello che gli stava accadendo”. A un certo punto Ali non aveva più nessuno da combattere, le sue mani tremavano: esiste una fine peggiore? Non era un santo, no di certo. Ma un post scriptum alla fine del libro racconta l’uomo che è stato. A 24 anni si presentò in un quartiere di Chicago nel mezzo di uno sfratto: la polizia stava svuotando una casa, i mobili erano tutti ammassati sul marciapiede. Lui senza dire una parola, raccolse una sedia e la riportò nell’appartamento. Lo imitarono tutti, la casa si riempì di nuovo, lo sceriffo non fece niente per fermarli. Non avrebbe potuto, Ali era il re del mondo.

 

MUHAMMAD ALI, LA VITA
Jonathan Eig
66thand2nd, 748 pp., 25 euro

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