Muhammad Alì che per primo conquistò il mondo intero

Stefano Pistolini
E' morto oggi, a 74 anni, il grande pugile americano. Fu campione olimpico e del mondo dei pesi massimi, ma soprattutto un archetipo culturale e un anticipatore della trasformazione, a fine millennio, degli sportivi in icone globali.

La prima cosa che impressiona, di fronte alla scomparsa di Muhammad Ali, è che avesse solo 74 anni. E’ da un’eternità che siamo abituati a considerarlo il simbolo vivente di un passato lontano, rassegnati all’esposizione della sua sofferenza, quel disegno perverso del campione abbattuto, quell’eccesso di esemplarietà nel vedere la debolezza inerme di colui che fu il più forte e beffardo. Solo 74 anni, una vita normale - e invece concentrata tutta nel decennio della sua perfetta e lucente integrità, prima delle crepe agonistiche, prima del malanno, al culmine della celebrità, nella performance straordinaria di una delle prime rappresentazioni davvero planetarie: perché a quei tempi il campione del mondo dei pesi massimi di pugilato era una figura completamente mitica, che oggi non ha paragoni, venerata a tutte le latitudini, dal momento che significava che l’uomo più forte del mondo era lui. Aggiudicatosi questo titolo con facilità irrisoria, come una pratica di routine che richiedeva l’impiego di una parte minoritaria dei suoi talenti, Ali ebbe il tempo di dedicarsi a ciò che nella sua testa elettrica poteva prendere il nome di una “rivoluzione”, nel momento in cui l’America, il suo paese, proprio con la declinazione su più tavoli di quell’idea di una possibile rivoluzione, faceva i conti con tremore e disorganizzazione.

 



 

A posteriori sappiamo che la leadership di Muhammad Ali avrebbe prodotto, col suo messaggio, risultati deludenti, almeno dal punto di vista sovversivo a cui sembrava iscriversi, ma che al tempo stesso la drammaturgia del teatro umano che seppe allestire e il suo svolgersi, le sue rappresentazioni che intrattennero per numerose stagioni – di nuovo – tutto il mondo, ebbe una qualità irripetibile.

 

Ecco: bisogna insistere sulla dimensione globale di Ali, che fu un archetipo culturale e un anticipatore di quanto, alla fine del millennio, sarebbe divenuta la regola e l’abitudine della nostra vita, con le nuove regole e i nuovi strumenti. Ma allora era eccezionale che un pugile afroamericano acquisisse la popolarità di Alì in tutti i continenti, idolatrato in Asia e in Africa come per le strade di Chicago, spiato come un divo di Hollywood, ricevuto dai capi di stato, corteggiato e pedinato dai media e soprattutto con la licenza di dire quel che voleva e la certezza che il giorno successivo sarebbe stato sulle prime pagine di tutto il pianeta. Mai successo prima: questa sì era una rivoluzione assoluta, l’informazione era eccitata e impreparata, il mondo dello sport guardava con fremente perplessità al ragazzo con la bocca più grande dei suoi muscoli e con delle idee pazzesche di ciò che poteva fare e rappresentare col proprio corpo fuori dal ring, avendo ben chiaro che quel corpo era un mito, un’arma e un’icona, aveva un valore religioso, una potenza sessuale e un suono pop. E’ in questa consapevolezza che prende forma la rivoluzione di Muhammad Ali, prima che nel suo messaggio: nel metodo, nell’idea sovversiva, nell’intuizione di utilizzare la sua eccellenza naturale per scopi diversissimi da quelli a cui sembrava destinata, ovvero ridicolizzare e distruggere altri uomini forti come lui, ma appartenenti a un progetto più antico, meno evoluto, dai parametri più rozzi. Ali sa che grazie allo splendore che irradia, il mondo l’ammira e che lo fa sorridendo e dunque ascolterà qualsiasi cosa lui vorrà dire e guarderà qualsiasi cosa vorrà fare.

 

Al culmine della lucidità di questa di potenza, Alì comincia a produrre decisioni, che diventano scoop: il cambio di identità da quella originale e bellissima di Cassius Clay, il farsi musulmano, il rifiuto di assoggettarsi alla chiamata di leva, nei giorni torridi della guerra in Vietnam (“Io non ho alcuna disputa in corso con i Vietcong”). Poi, ovviamente e soprattutto, la celebrazione della liturgia che più gli sta a cuore, dopo gli anni di una crescita problematica, in faccia all’America turbolenta di quei giorni: nero è bello. Nero è giovane, forte e superiore. Un’America l’interpreta come il sintomo dell’inizio della fine. L’altra, rumorosa e multicolore, impazzisce per lui. A quel punto è già cominciato il conto alla rovescia per Ali, perché arrivato così in alto, disponendo di un simile potere, non sapendo infine cosa farne, se non una celebrazione spontanea del proprio vitalismo, della propria naturale rabbia, del proprio istinto di libertà, del proprio ridere in faccia al perbenismo e alle ipocrisie, arrivato sul punto di poter amministrare quel linguaggio che lui stesso aveva inventato, Ali si è fermato, ha distrutto Foreman in Africa, e poi ha seguito con docilità le tappe della sua caduta. L’apice era stato raggiunto e la banderuola, simbolo di un nuovo record di umana libertà, era stata strappata da lui. Per molti versi, parlando di sport, di atleti e di ciò che uno di loro, uno grandissimo, può fare al di fuori del suo campo di gioco, nella vita vera, nella politica e nello spettacolo, nella società e nella definizione dei modelli, quel record è ancora suo ed è destinato a rimanere tale. Il ragazzo di Louisville aveva dimostrato – fin troppo, per i gusti della grande America – l’assunto della sua nazione: tutto è possibile, se lo vuoi e per limite c’è solo il cielo. A chi trattava con scetticismo questo principio, che fosse un bianco disilluso o un nero represso, la pubblica rappresentazione data da Muhammad Ali diveniva monito e lezione.

 

Poi c’è il vecchio adagio che dice quanto sia saggio godersi il viaggio, senza aspettare di godere arrivati alla meta. Ali l’ha fatto: ha conquistato il mondo, l’amore e l’odio dei contemporanei e l’ammirazione dei posteri, mettendosi in scena come progetto di una rivoluzione che poi, ovviamente, non sarebbe avvenuta. Lo spettacolo dei suoi match e le cronache delle sue peripezie hanno alzato l’asticella non solo dello sport, ma della società civile. E di quanto potere, di quanto ascolto può arrivare a disporre un uomo che sa affascinare i propri simili? Come dicevamo in apertura, tutto questo avvenne in un ristretto giro di anni, lontanissimi, sottoposti a nostalgia e ricostruzioni, eroici e tragici, così diversi dal nostro presente da renderli estranei. Al presente Ali era solo il vecchio campione fragile, da esporre nelle grandi occasioni. Uno spettacolo malinconico, che i seguaci hanno sempre disdegnato. Faceva venire in mente Spartaco, in catene, mite e addomesticato. Qualcuno diceva perfino che la sua più grande sfortuna, quella che l’aveva sottratto al capolavoro definitivo, fosse stato proprio l’essere sopravvissuto al momento magico. E l’aver riportato sulla terra, dove regna la fallibilità e l’imperfezione, quel progetto umano inconcepibile. Che gli era balenato nella testa mentre danzava sul ring - così, tanto per non annoiarsi, mentre ridicolizzava un altro bestione.

 

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