Muhammad Ali e il ring come fosse un palcoscenico

A Napoli al Palazzo delle Arti Napoli c'è "Ali", un itinerario attraverso i doni che Cassius Clay ha consegnato al mondo

Marco Pastonesi

Era un ballerino. Sul ring come se fosse un palcoscenico. Danzava, fluttuava, volava. Sfuggiva, rientrava, eludeva. Sfiorava, colpiva, spariva. C’era e non c’era, c’era e ci faceva, c’era e ci giocava. Giocava, a volte gigioneggiava, spesso giganteggiava. Giocava di anticipo, di rimessa, di fantasia. Giocava come se non fosse la vita o la morte, la borsa o la vita, il campionato del mondo dei pesi massimi. Giocava e si prendeva gioco, giocoso e giocoliere. Era un ballerino. Sul ring come se fosse un palcoscenico. Un ballerino classico, jazz, rap, seguiva uno spartito e poi improvvisava, secondo un umore, un’urgenza, una disponibilità offerta dal luogo e proposta dall’avversario, e adattandosi arricchiva, e adeguandosi inventava, e trasgredendo divertiva. Era un ballerino. Sul ring come se fosse un palcoscenico. Accorciava, allungava, svaniva. Suonava, come se le sue mani fossero fiati, come se le sue gambe fossero legni e archi. Sinistro, destro, sinistro. Jab, montante, diretto. Uno-due, uno-due, uno-due. Pungeva, irritava, affondava. Guardava l’effetto che faceva, e intanto si faceva ammirare, e intanto ne andava fiero. Creava. Ballando, ballando, ballando.

 

Ali. Cassius Marcellus Clay Junior diventato Muhammad Ali. Il più grande. Non solo sul quadrato, ma anche fuori dalle corde. Le sue, le sue corde, suonavano nell’arte della boxe e nella vita di tutti i giorni. Società, politica, religione, cultura, spettacolo. Lui, spettacolare, sempre. E uno spettacolo è anche l’esposizione fotografica “Ali” al Pan (Palazzo delle Arti Napoli) dal 22 marzo al 16 giugno, un centinaio di immagini scelte negli archivi del quotidiano «New York Post», dall’agenzia fotografica Sygma e dal mensile «Life» (orari: lunedì-domenica, 9.30-19.30; martedì chiuso. Biglietti: 10 euro interi, 8 ridotti, 5 scuole. Informazioni: tel. 081/3630018. Catalogo: Skira). Un itinerario pensato attraverso i doni che Ali ha consegnato al mondo: il dono agli appassionati di boxe, danzando e pungendo, colpendo, abbattendo; il dono al linguaggio, un talento naturale nella comunicazione; il dono alla dignità umana, ricordandosi sempre degli ultimi, dei dimenticati e degli esclusi; il dono ai compagni di viaggio, costruendo famiglie, quella sua, tra quattro mogli e nove figli, quella del suo staff, i secondi, ma secondi a nessuno, e quella del suo clan, una tribù, una comunità, un popolo; il dono ai bambini, con cui aveva una relazione, una sensibilità, una sintonia speciali; il dono al coraggio, quello di dichiararsi, schierarsi, esserci, perfino tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996; e il dono alla memoria, che è quella del pianeta Terra, anche grazie a questa prima grande mostra italiana.

 

Ali è la storia del pugilato, ne rappresenta lo zenit. Sessantuno match e 548 round da professionista, dal 1960 al 1981. Più facile ricordare le sconfitte (cinque, di cui tre negli ultimi quattro incontri) che non le vittorie (56, di cui 37 per KO, il 61 per cento). La prima sconfitta contro Joe Frazier (poi battuto nei due successivi match): l’8 marzo 1971, ai punti in 15 riprese. Era il trentaduesimo incontro di Ali, che aveva smesso di combattere (vantava un record di 29 vittorie e zero sconfitte), squalificato per renitenza alla leva militare, dal marzo 1967 all’ottobre 1970.

 

 

La seconda sconfitta contro Ken Norton nel 1973 (poi battuto nella rivincita), la terza contro Leon Spinks nel 1978 (poi battuto nella rivincita), la quarta contro Larry Holmes nel 1980, la quinta e ultima nell’ultimo match della carriera contro Trevor Berbick nel 1981. Ali è l’unico massimo nella storia ad avere conquistato il titolo mondiale tre volte: la prima il 25 febbraio 1964 contro Sonny Liston, la seconda il 30 ottobre 1974 contro George Foreman, la terza il 15 settembre 1978 contro Leon Spinks. In tutto, Ali ha sostenuto 34 combattimenti con il titolo mondiale in palio.

 

Ma c’è anche la questione del Vietnam, c’è anche l’amicizia con Malcolm X, c’è anche l’adesione all’Islam, c’è anche il morbo di Parkinson, e quel finale in difficoltà, in salita, lentamente, dolorosamente, sempre con dignità. Ci aveva abituato bene. Provocava, accendeva, esplodeva. Accusava, giudicava, sentenziava. Sorprendeva, stupiva, sbalordiva. Inventava, improvvisava, istigava. “Io sono il più grande”, “Io sono l’America”. Jab come verbi, montanti come avverbi, ganci come aggettivi. E verbi come jab, avverbi come montanti, aggettivi come ganci. Aveva pugni letterari e battute da k.o., una lingua così tagliente da vincere i match per ferita prima ancora di cominciare a combattere, suonava gli avversari in otto parole: “Joe Frazier è troppo brutto per essere campione”. Timidezza, zero. Anzi, l’impressione (impressionante) di caricarsi dei muscoli, dei soldi, della fama di chi si trovava davanti, su un ring o in un salotto, da soli o alla tv. “Sei più intelligente di quello che sembri in fotografia”, a John Lennon. E anche modestia, zero. Sosteneva: “Ero così veloce che avrei potuto alzarmi dal letto, attraversare la stanza, girare l'interruttore e tornare a letto sotto le coperte prima che la luce si fosse spenta”. Spiegava: “Quando si è grandi come lo sono io, è difficile essere modesti”. Da lui, una vita sempre al limite oltre il limite dei quindici round, si accettava tutto.

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