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La sconfitta dell'Ajax e il calcio come Utopia di vincere perché si è i migliori

Maurizio Crippa

“Giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che esista”

"In fin dei conti il calcio è fantasia", scriveva Osvaldo Soriano. Ma innanzitutto era un grande scrittore, dunque libero da obblighi con la verità, e in secondo luogo era argentino, proprio come Mauricio Pochettino, il figlio calcistico del Loco Bielsa: sudamericani che alla fantasia, come essenza trascendentale del calcio, preferiscono il furore della vittoria come forma di una fissazione dinamica. Ma le parti del mondo sono tante, come i rettangoli logici in cui è suddiviso il campo. In Olanda, dove tutto è più piatto e geometrico, l’essenza del calcio è differente: è una forma dell’utopia. “Giocare a calcio è molto semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che esista”. Così recita il prolegomeno all’utopia del calcio fissato, molti anni fa, dal fondatore di un pensiero, prima ancora che di uno stile di gioco: sua maestà Johan Cruijff, l’uomo che cambiò, semplicemente, tutto. Spazio, movimento, linee di fuga, essenzialità, tecnica, etica, squadra, collettivo. Calcio totale. “Non è il buono contro il cattivo è fare in modo che vinca il buono”, recita un’altra delle proposizioni fondative dell’utopia biancorossa, e insieme arancione: “Il senso del calcio è che vinca il migliore in campo, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget”. Vincere non perché si è più ricchi, o cattivi, o combattenti. ma perché si è i migliori. Perfetti, consapevoli. Non è Dio che fa vincere, siamo calvinisti, non cattolici latini: la prova della sua esistenza è il nostro stesso merito.

 

Vincere per un’utopia, oppure perdere. Finire a pezzi come un cristallo. Mercoledì sera, dopo 95 minuti di football da strabuzzare gli occhi per lo splendore (è cosa buona e giusta che non le facciano giocare le squadre italiane, in Champions League) sul prato dell’Amsterdam Arena, che oggi giustamente si chiama Johan Cruijff Arena, sono stramazzati come angeli caduti dal cielo undici eroi, giovani e belli come figli di Aiace. Con i colori bianchi e rossi della squadra olandese. Una squadra, dopo molti anni, tornata a essere di un’altra natura, come quella degli anni Settanta. Cioè non soltanto una bella squadra che gioca un bel calcio all’olandese, ma un trattato vivente dell’utopia: vincere, semplicemente, perché si è superiori nel tempo e nello spazio. Anzi i creatori del tempo e dello spazio. Oppure fallire. Dopo aver dispensato lezioni di calcio e pensiero per una stagione di coppa, gli utopisti hanno sbagliato gli ultimi 45 minuti, e l’ultimo degli ultimi minuti di recupero, e ha vinto il Tottenham: gli inglesi che non muoiono mai guidati da un allenatore argentino, loco figlio di loco. Uno per il quale il calcio non è utopia ma realtà, è battaglia e applicazione. Perché il contrario dell’utopia, lo scotto da pagare, non è mai un grigio pareggio, o una vittoria rubata d’istinto. E’ il crollo di tutto. Si vince perché si è migliori, o si perde.

 

Niente come la storia olandese di questo calcio ultra filosofico è costellato di fallimenti finali. Non tanto dell’Ajax di Cruijff, ma del simbolo planetario di una filosofia di calcio e di vita, la Nazionale Orange, sì. Arrivata tre volte (due di fila, con il suo divino 14) in finale del Mondiale, giocando ogni volta il calcio migliore, spettacolare, tecnico e totale. E tre volte sconfitta. Dal raziocinio tedesco, dalla grinta sanguigna degli argentini, dalla furia rossa degli spagnoli. Cinque volte tra le prime quattro, mai vincente. E una sola vittoria, nel 1988 all’Europeo, con un’altra generazione di talentuosi oltranzisti. Così pure mercoledì. Per questa squadra di ragazzi di immenso talento, cresciuta in casa, istruita a giocare come un solo organismo, costata una manciata di euro, con l’etica nordeuropea del bilancio in pari e sapendo di non poter mai rivaleggiare con i signori del football-business (“Noi incassiamo 10 milioni di euro dalle televisioni. Non so quanti ne prendano gli Spurs”, Ten Hag). Direte che il Barça è la stessa utopia, è il Dna olandese clonato. Però vince col trucco dei big data: i soldi. E’ la differenza tra Steve Jobs e Zuckerberg. E il Barça, quando perde, non perde per eccesso di utopia (riferimento mitologico: volo di Icaro), ma per peccato di supponenza (riferimento mitologico: Narciso). L’utopia dell’Ajax ha invece a che fare con la Pazzia elogiata da Erasmo, con la dottrina calvinista della predestinazione, con il rigorismo morale che non ammette tende alle finestre, perché nessuno ha malefatte da nascondere e tutti cooperano a un bene superiore. Come Cruijff nel ritratto di Federico Buffa: “Non gioca per lo spettacolo, gioca per un’utilità: è veramente un olandese”. Poi c’è il mysterium iniquitatis, l’esistenza del male. O semplicemente il fatto che esistono altri modi di intendere il calcio. E i ragazzi di Aiace sono lì, tramortiti sull’erba verde.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"