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L'Atalanta che vince non è più la squadra dei giovani e del vivaio

Leo Lombardi

Pochissimi italiani in campo e più soldi sul mercato. Così i nerazzurri di Bergamo sono cambiati (con lungimiranza) e ora vogliono un posto in Champions e la Coppa Italia

L’Atalanta corre veloce, velocissima. Dal 23 febbraio, giorno dell’ultima sconfitta (2-0 in trasferta con il Torino), il ritmo è stato irresistibile. In campionato sei vittorie e tre pareggi che, uniti agli affanni altrui, stanno consegnando un quarto posto che significherebbe storica qualificazione alla Champions League. In Coppa Italia si è invece concretizzato, attraverso l’eliminazione della Fiorentina, un accesso alla finale che non si vedeva dal 1996, con l’obiettivo di ripetere l’impresa del 1963, anno in cui una tripletta di Angelo Domenghini consegnò l’unico trofeo nella storia del club. Un cammino che potrebbe far scattare facilmente il paragone con l’Ajax, altra grande sorpresa del momento. Una società che si mette in concorrenza con le big del bilancio (una in Italia, l’altra in Europa), che in panchina ha un allenatore che viene dal basso (Gian Piero Gasperini come Erik ten Hag), che fa del gioco spettacolare la ragione sociale e che costruisce le squadre in casa. Tutto vero, tranne l’ultimo punto, perché nell’Atalanta di oggi c’è una sorta di mutazione genetica in atto. Non più la squadra dei giovani e del vivaio, ma l’esatto contrario.

 

Il primo segnale lo si era registrato il 30 gennaio, nella serata forse più esaltante della stagione nerazzurra: quarti di Coppa Italia, Juventus derisa e mandata a casa con un 3-0 che non ammetteva repliche. In campo Atalanta con undici stranieri, mai visto. Quattro giorni dopo il bis in campionato, ancora più eclatante visto che, nella vittoria di Cagliari, l’unico cambio è uno straniero per uno straniero: Josip Ilicic al posto di Alejandro “Papu” Gomez.

 

Una rivoluzione culturale per una società e una tifoseria che avevano – e hanno – nel cuore Zingonia, il centro tecnico che sorge nella città dell’utopia voluta da Renzo Zingone dove, con concretezza tutta bergamasca, si è creato un modello di lavoro. Un settore giovanile che, al tempo stesso, produce allenatori (Cesare Prandelli, il nome più ricorrente) e giocatori. Il luogo in cui il punto di riferimento è stato per tre decenni Mino Favini, il talent scout morto il 23 aprile scorso e inesauribile scopritore di calciatori. Il suo capolavoro è stata la squadra della promozione in A nel 2004, con sette elementi del vivaio (Bellini, Lorenzi, Montolivo, Pazzini, Pinardi, Rustico e Damiano Zenoni) guidati da un tecnico a sua volta proveniente da lì (Giovanni Vavassori). Sembra una vita fa, come sembra una vita fa l’Atalanta del 2014-15, che aveva 19 italiani su una trentina di nomi in rosa. Oggi sono sette, tre soli dei quali nel giro dei titolari (Gollini, Mancini e Masiello) e nessuno dei tre cresciuto a Zingonia.

Nel 2014-15 aveva 19 italiani in rosa. Oggi sono 7, solo 3 dei quali nel giro dei titolari, nessuno dei 3 cresciuto a Zingonia

La spiegazione di tale tendenza non può fondarsi su certezze assolute, queste non esistono nel calcio. L’Ajax che oggi applaudiamo si era eclissato per oltre vent’anni, dalla Champions League vinta nel 1995 alla finale di Europa League raggiunta nel 2017. Una questione di cicli, come probabilmente sta accadendo in casa nerazzurra, dove si intravedono i possibili talenti del futuro: costruiti in casa, come l’attaccante Roberto Piccoli (18 anni), o pescati altrove, come il fantasista svedese Dejan Kulusevski, 19 anni, preso quando ne aveva 16 battendo la concorrenza dell’Arsenal. Sono i punti di forza della squadra Primavera oggi in testa alla classifica, vetta di un settore affidato a Maurizio Costanzi, che Giovanni Sartori, responsabile dell’area tecnica, ha portato con sé dal Chievo. Gli altri ragazzi del vivaio – da Caldara a Kessié, da Gagliardini a Conti, per citare i più noti – sono stati lanciati e salutati nelle ultime tre stagioni per mettere a bilancio 200 milioni. Soldi serviti per l’investimento stadio, chiuso da lunedì, dopo la vittoria sull’Udinese, per avviare i lavori di una profonda ristrutturazione, e per un mercato che ha cominciato a guardare più agli stranieri che agli italiani. Un lavoro partito proprio con l’approdo di Sartori nel 2014, battendo il fronte estero alla ricerca di elementi già pronti e che soprattutto, quando paragonati a un prodotto nostrano, dai costi più abbordabili, scovati in squadre di seconda, quando non di terza fascia.

 

Oggi l’Atalanta è fatta di gente come José Palomino, passato in Argentina dai club di papa Francesco (il San Lorenzo) e Diego Maradona (Argentinos Juniors) e approdato in un’Europa minore: prima il Metz in Francia, quindi il Ludogorets in Bulgaria, dove l’Atalanta lo scova nel 2017, a 27 anni. Oppure Timothy Castagne, preso dal Genk in Belgio, Hans Hateboer scoperto nel Groningen in Olanda, campionato da cui arriva anche il tedesco Robins Gosens, che scendeva in campo nell’Heracles Almelo. Poi il fronte svizzero, come Remo Freuler, uno qualunque al Lucerna e diventato irresistibile a Bergamo, fino alla convocazione in Nazionale. O come l’albanese Berat Djimsiti, ingaggiato nel 2015 dallo Zurigo, quando aveva 22 anni, e poi mandato a fare esperienza ad Avellino e a Benevento, prima di tornare alla base quest’anno.

 

Con i soldi fatti vendendo i gioielli cresciuti in casa si investe sullo stadio e sugli stranieri già pronti. I meriti di Sartori

Soldi provenienti dagli italiani che hanno permesso anche operazioni importanti, riguardanti giocatori già affermati. Su tutti Duvan Zapata, pagato 24 milioni alla Sampdoria nell’estate 2018 e diventato l’acquisto più dispendioso nella storia nerazzurra: investimento ripagato con 21 gol. Una cifra che ha battuto i 15 milioni spesi per riprendersi Martin de Roon dal Middlesborugh e farne il metronomo del centrocampo. E poi Ilicic, il genio della trequarti, che ha scelto il nerazzurro nel 2017, quando ormai sembrava cosa fatta il trasferimento alla Sampdoria. Fino ad arrivare a Gomez, riportato in Italia dall’Ucraina nel 2014 e diventato leader-capitano, talmente legato a Bergamo da dire no a proposte vantaggiosissime giunte in questi anni. Su tutti, però, Gasperini, un allenatore che ha sempre significato la felicità dei suoi presidenti e dei loro bilanci. Enrico Preziosi gli smontava le squadre al Genoa e lui le ricostruiva con pazienza, non soltanto salvandole. A Bergamo, con Antonio Percassi, il trend è identico, ma la sostanza degli interpreti ha permesso di alzare l’asticella. In maniera inaspettata, forse, ma assolutamente meritata.

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