Mercoledì allo stadio Olimpico di Roma si gioca la finale di Coppa Italia tra Atalanta e Lazio (foto LaPresse)

Il foglio sportivo

Atalanta-Lazio: sarà una finale bellissima

Umberto Zapelloni

All’Olimpico la sfida di Coppa Italia tra Atalanta e Lazio, le due squadre italiane che giocano meglio. Eventi e convegni a margine della partita. L’ad di Serie A De Siervo: “Diventerà il nostro Superbowl”

Con gli occhi pieni di Liverpool e Tottenham partiamo per Roma, destinazione Stadio Olimpico, finale di Coppa Italia. L’appuntamento è per mercoledì 15, ore 20.45, l’obiettivo è quello di superare i 10 milioni e mezzo di telespettatori di Juve-Milan dello scorso anno. We’ll never walk alone perché ci faranno compagnia Lazio e Atalanta, il miglior biglietto da visita che oggi possa offrire il nostro calcio. Uno spot del bel gioco che in questo caso fa rima anche con risultato perché nessuno si aspettava di ritrovarsi un ultimo atto così nel primo anno dell’èra Ronaldo in Italia.

 

La finale mai vista in 72 anni di coppa nazionale, la finale giusta in questo momento molto british del calcio europeo. Non prendeteci per pazzi se, dopo aver visto Liverpool-Barcellona e Ajax-Tottenham, due, anzi quattro meraviglie pazzesche, pensiamo di poterci divertire con l’unica partita della stagione a cui presenzierà il presidente della Repubblica.

 

Lo sponsor vorrebbe farcela chiamare Tim Cup, anche se in questa stagione è entrato in corsa, giusto prima delle semifinali di ritorno. Ma Coppa Italia suona meglio soprattutto per chi ci guarderà con curiosità dall’estero.

 

I bergamaschi hanno percorso 108,959 km,
i laziali una decina in più, facendo più tiri ma segnando meno

La Lega di Serie A sta combattendo per non farsi comprimere dal disegno di chi vorrebbe trasformare tutto in un’enorme Champions League. Ha un campionato da proteggere e da valorizzare. Ma la finale di Coppa Italia rappresenta un momento clou della stagione.

 

La faremo crescere sempre di più. Vogliamo che diventi il nostro piccolo Superbowl con la partita al centro di tutta una serie di eventi che esaltano il prodotto e non sono rivolti solo ai fan”, racconta al Foglio Sportivo Luigi De Siervo, l’amministratore delegato della Lega Serie A, che sta cercando di trasformare in media company dopo averle regalato un nuovo logo tridimensionale. L’appuntamento romano è arricchito da murales, convegni, charity dinner pro Airc, messaggi anti razzismo prima e durante i 90’ e un’apposita app (Fanplus) per stare al passo con tempi in cui esiste una app per tutto. “Con questa app tutti i tifosi presenti allo stadio potranno vivere un’esperienza esclusiva e personalizzata – spiega De Siervo – Le applicazioni mobile sono ormai sempre più diffuse nella vita di tutti i giorni, la vera sfida è quella di riuscire a fornire a tutti gli appassionati un servizio coinvolgente in grado di migliorare la fan experience”. Si può così scoprire, tra tante curiosità e molto coinvolgimento per i tifosi, che l’Atalanta ha percorso 108,959 chilometri per arrivare in finale, la Lazio una decina in più, facendo più tiri (57, di cui 38 nello specchio) rispetto ai nerazzurri (48 di cui 24 a bersaglio) che però hanno segnato 4 gol in più (10-6). La battaglia della Lega oggi è però soprattutto per salvare i weekend di campionato e il valore delle sue classifiche in vista dell’arrivo della nuova Champions League, e dalla Coppa Italia ci si aspetta uno squillo che possa dare la carica. Una serata da ricordare. “Dobbiamo crescere, crescere, crescere”, è lo slogan preferito da De Siervo.

 


Illustrazione di Doriano Strologo


 

Se guardiamo alla qualità del gioco, Atalanta e Lazio rappresentano il meglio che possa offrire oggi il nostro calcio. Con tutto il rispetto per la Juve e Cristiano Ronaldo, imbattibili ma non sempre bellissimi. La Juve contro l’Atletico ha giocato una delle partite memorabili di questa stagione, ma se guardiamo la stagione intera è difficile sostenere che qualcuno abbia espresso un gioco migliore di Gasperini e Inzaghi. Basta sentire i cosiddetti talent commentatori, anche quelli che non fanno arrabbiare Allegri. Il gioco dell’Atalanta (sempre) e quello della Lazio (molto spesso) non hanno avuto rivali. Se poi pensiamo che l’Atalanta corre (e come corre!) dall’inizio di luglio, qualche ragionamento sulla bravura di chi ha costruito e modellato questa squadra va fatto. Non è una squadra di giovanissimi, non è una squadra di fuoriclasse, ma è una squadra che gioca un calcio avvolgente e travolgente, atletico e raffinato, tosto come la tradizione vuole che sia un bergamasco. Ma anche gentile quando c’è da accarezzare la palla, perché da Bergamo non vengono solo i muratori capaci di tirarti su un muro in un attimo, ma anche personaggi raffinati come il maestro Gavazzeni, Nicola Trussardi o Giacomo Manzù. Musica, moda, scultura. Agitate e shakerate con la grinta di Sofia Goggia e avrete il cocktail perfetto per stupire il mondo e non solo il calcio italiano. L’Atalanta asfissia gli avversari con il pressing, poi li incanta con il bel gioco e li stordisce con i gol (ne ha realizzati 71, miglior attacco del campionato).

  

L’Atalanta ha vinto una sola volta la Coppa Italia, possiamo dire che la vince una volta ogni morte di Papa visto che nel 1963 il giorno dopo il trionfo nerazzurro se ne andò Papa Giovanni XXIII che veniva proprio da Bergamo. Gasp non è più un’esclamazione da fumetti, è il soprannome di quello che molti commentatori oggi ritengono il miglior allenatore italiano, di certo un serio candidato alla Panchina d’oro 2019, grazie alla corsa Champions in cui ha portato una squadra nata con obiettivi diversi e meno ambiziosi. Solo all’Inter ha fallito, ma verrebbe da chiedersi chi non ha fallito all’Inter prima e dopo Mancini e Mourinho… Come verrebbe da chiedersi perché, spesso, i giocatori che all’Atalanta fanno i fenomeni quando rompono il cordone ombelicale che li lega a Gasp e a Bergamo o si spezzano o si piegano. L’elenco è lungo: Conti, Caldara, Spinazzola, ma anche Gagliardini, Kessie e Cristante non sono più stati quelli degli anni di Bergamo. Come se Gasperini si tenesse stretto il libretto d’istruzioni. Non resta che riprovare con lui, ma adesso che gli stanno i rifacendo anche lo stadio non sarà così semplice portarlo via. Ma forse è il modello Atalanta, la filosofia applicata dai Percassi padri e figlio, da esportare. Non solo l’allenatore. La politica dei piccoli passi. Del grande investimento prima sul settore giovanile, poi sullo stadio. I limiti di bilancio aggirati con le idee e il bel gioco. La differenza, come direbbe Sacchi, la fa lo spartito e chi quello spartito lo fa seguire. Un allenatore che incide e una società che costruisce.

 

Gasp e Inzaghi sono simili, anche se arrivano da mondi e generazioni lontane. Sanno adattare
il gioco ai giocatori

La Lazio di finali ne ha giocate cinque negli ultimi dieci anni, come la Juve che però ne ha vinte quattro di fila prima di esser sbattuta fuori proprio dall’Atalanta. Ha messo le parole dell’inno di Mameli sulle maglie da finale, ci tiene ad aprirsi questa porta verso l’Europa. Simone Inzaghi ha una certa abitudine a giocarsi tutto in 90 minuti, è alla sua terza finale (ha vinto la supercoppa italiana 2017) e rispetto all’Atalanta ha una motivazione in più. La vittoria in coppa rischia di essere l’unica strada percorribile per raggiungere l’Europa e il suo tesoretto. Vincere la Coppa Italia garantisce 5,3 milioni di euro (3,3 agli sconfitti) oltre alla metà del 45 per cento dell’incasso, ma soprattutto porta poi alla finale di Supercoppa italiana (altri 3,4 milioni) e all’Europa League con i suoi 20 milioni. Il piatto è ricco, anzi ricchissimo e sappiamo quanto Lotito sia attaccato ai montepremi.

 

Inzaghi studia calcio con il Gasp, ma forse lo condisce con un pizzico di italianità in più. Ruba palla e riparte e quando lo fa la sua Lazio riesce anche a farsi bella. Ha uomini di talento. Capaci di inventare. Quest’anno si è un po’ inceppata là davanti (solo 50 gol finora) mentre l’anno scorso ne totalizzò 89, tre in più della Juve campione d’Italia. E infatti ha smarrito terreno in classifica, ma è qui a giocarsi la coppa sull’erba di casa dove non farà gli stessi errori di distrazione della scorsa settimana quando ha perso 3-1 l’aperitivo di campionato contro un’Atalanta bella e spietata come un eroe da film western. Uscito dal campo, l’Inzaghino è diventato figlio unico. Più allenatore di suo fratello Pippo. Più concreto, più capace di incidere sul gioco e di gestire un presidente vulcanico e un pubblico che facile facile non è. Ci ha messo un po’ a farsi amare anche da Lotito che ha cercato dappertutto prima di accorgersi di averlo in casa l’uomo giusto. Ma anche questa è roba vecchia. Sembra di un secolo fa, invece sono solo tre anni che ha lasciato la Primavera per la prima vera squadra della sua carriera.

 

In fin dei conti Gasp e Inzaghi non sono poi così diversi, anche se arrivano da mondi e generazioni lontane. Hanno quasi 20 anni di differenza, ma hanno tutti e due la capacità di adattare il loro gioco ai giocatori che hanno in rosa, di cambiare se l’avversario sembra trovare l’antidoto giusto. Hanno la loro idea di calcio, ma se non hanno i giocatori per metterla in pratica, studiano altre soluzioni, altre variabili. Poi riconducono tutto a un nuovo sistema. Atalanta e Lazio sono due squadre che giocano a memoria. Costruiscono gioco e quando si rompe un ingranaggio (o viene ceduto) ne adattano un altro. Sono d ue squadre in cui si legge la mano dei loro allenatori. Che amano la bellezza e spesso riescono a realizzarla. Per questo saremmo davvero stupiti se Lazio-Atalanta si trasformasse in una brutta partita.