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Champions ed Europa League, due finali da perderci la voce

Piero Vietti

Paolo Di Canio ci spiega perché non è un caso se a giocarsi le coppe europee ci sono quattro inglesi. Appartenenza, tifo e un po’ di Europa: la Premier è davvero il campionato più bello del mondo

"Una delle prime partite che gioco con lo Sheffield Wednesday la perdiamo 7-1. Uscendo dallo stadio vedo un gruppo di tifosi che ci aspetta. Subito penso che ci vogliano insultare, giustamente: sento che mi chiamano, mi avvicino pronto a dare spiegazioni per la sconfitta e loro invece mi incitano e chiedono autografi. Quel giorno sono tornato a casa deciso a dare ancora di più per quella maglia. Quello era il mio mondo". Per capire il calcio inglese è utile partire da questo episodio. A raccontarlo è Paolo Di Canio, e qualcuno provi a dirgli che quella della Premier-League-campionato-più-bello-del-mondo è un’esagerazione. Basta ascoltarlo parlare di quella che è stata la sua casa per dieci anni, otto da giocatore e due da allenatore, per capire che l’Inghilterra è davvero un posto diverso dagli altri. “Quando il pallone rotola lo stadio si riempie. La passione per una squadra, l’amore per quei colori è innanzitutto qualcosa che si tramanda, una tradizione: i bambini sentono i racconti dei padri e tifano per la stessa squadra. È una questione di appartenenza”. Il non discutere ma amare la squadra per cui si fa il tifo da quelle parti è cosa seria, quasi impensabile per noi, che pure ci riempiamo la bocca di slogan sulla fede ma quando i risultati non arrivano disertiamo lo stadio e contestiamo. “Io impazzivo per l’entusiasmo e la partecipazione, in tutti gli stadi c’è un clima che dà voglia di ripagare i tifosi. Quasi tutti i cori sono a favore, pochissimi, e di solito ironici, quelli contro”. Mentre ne parla, in una stanza della redazione di Sky Sport, prima dell’ultima diretta della stagione, domenica 12 maggio, Di Canio non riesce a stare fermo, salta sulla sedia: “Solo a parlarne mi vengono i brividi”, dice.

 


Paolo Di Canio con la maglia del West Ham (foto LaPresse)


 

"Una volta mi sono aperto una caviglia giocando, mi hanno dato dei punti e ho finito la partita grazie all’adrenalina. Due giorni dopo però avevamo un altro match, e io quasi non appoggiavo il piede a terra per il dolore. Quando con la squadra siamo entrati nello stadio per il sopralluogo e ho visto i nostri tifosi che ci avevano seguito in trasferta mi è passato tutto e sono sceso in campo". Non sembra uno che ha smesso di giocare, eppure poco dopo si presenta in studio con un vestito che soltanto lui può indossare con eleganza, bordeaux e azzurro a quadri. “È l’abito di Upton Park”, spiega a chi lo guarda stupito. Upton Park è lo stadio del West Ham, la squadra inglese in cui Di Canio ha giocato di più – cinque stagioni – e che ha nel cuore, subito dopo la Lazio. “Oggi si compie l’atto finale”, dice mentre qualcuno scatta una foto a lui e Federica Lodi, con cui ha raccontato la Premier League su Sky per tutto l’anno. La settimana è quella storica delle quattro inglesi finaliste in Europa, roba da infarto anche per chi è abituato alle rimonte: “La voce mi è tornata soltanto stamattina – dice – martedì e mercoledì ho visto le partite di Tottenham e Liverpool nella mia tavernetta, da solo. Di solito le guardo con gli amici, ma questa volta c’era troppa tensione”. Tv accesa, divano, volume al massimo. “Ho urlato talmente tanto che mia moglie a un certo punto è scesa a chiedermi se andava tutto bene”. Andava benissimo, in effetti. La terza vita di Paolo Di Canio, quella da commentatore televisivo, ci regala un uomo sempre generoso e dagli entusiasmi estremi, ma più posato e razionale, meno “buio e luna piena” (Califano).

 

Gli anni di televisione gli hanno insegnato “a bloccare gli istinti”, racconta, “ma quando guardo una partita io divento un bambino”. Un bambino che però ne sa come pochi, ed è in grado di parlarne con competenza facendosi capire da tutti. “Finisce 4-1 per il City, te lo dico io”. Sono le 16.38 di domenica 12 maggio, e Laporte ha appena completato la rimonta del Manchester City sul Brighton, da 0-1 a 2-1 in dieci minuti. È l’ultima giornata di Premier League, il Liverpool ha solo un punto in meno dei Citizens: se la squadra di Guardiola non vince, quella di Klopp può superarla e alzare un trofeo che non tocca da 29 anni. Di Canio segue le partite su due monitor contemporaneamente, discute con la redazione del suo programma, fa notare cose che in pochi hanno notato, litiga sull’opportunità del tiro con cui Kompany la settimana prima ha deciso la partita del City. La partita finirà effettivamente 4-1, la squadra di Guardiola vincerà il campionato e il Liverpool dovrà aspettare il 1° giugno, giorno della finale di Champions League contro il Tottenham, tre giorni dopo l’altra finale europea, ancora tra due inglesi, quella di Europa League tra Chelsea e Arsenal. Un caso? Una botta di culo? “No, le inglesi stanno raccogliendo quello che hanno seminato con il lavoro in questi anni”. Non è un luogo comune quello del campionato più bello del mondo. Diffidate da chi vi magnifica gli stadi inglesi per sentito dire, ma fidatevi ciecamente di chi su quell’erba ha corso e rotolato, respirando un’atmosfera che gli fa venire la pelle d’oca quando la racconta. “Io mi sento calcisticamente inglese”, confessa più di una volta, e quando dice “noi” bisogna chiedergli se intende “noi inglesi” o “noi italiani”. Impossibile per Di Canio non essere entusiasta di questa doppia finale british. “Nel calcio ci sono i periodi per raccogliere, questo è uno di quelli. Ma sono già tre anni che lo fanno: due stagioni fa il Manchester United ha vinto l’Europa League, il Liverpool era finalista di Champions dodici mesi fa”.

 

E questi ribaltamenti di risultato? “La premier è un campionato che prepara alle battaglie. Anche qui la più forte vince quasi sempre, ma sa che deve lottare fino all’ultimo secondo. I comeback sono un’abitudine, in quel campionato match folli come Ajax-Tottenham succedono quasi settimanalmente. Nella mentalità inglese non c’è l’idea di gestire la partita, e con questi stadi che spingono così un giocatore è portato naturalmente a diventare parte dell’atmosfera, e quindi a spingere anche lui”. Il diavolo e la vittoria stanno nei dettagli, persino il clima fa la differenza: “Non fa quasi mai caldo, i campi sono veloci, ci si allena a giocare sull’erba bagnata, si gioca aggressivi per forza”. Poi c’è il famoso arbitraggio all’inglese. Le regole non cambiano, la loro interpretazione però trasforma il calcio in un altro sport: “In media si fischia il 30 per cento di falli in meno. Se sai che non ti fischieranno mai fallo a favore per una spallata subìta, sarai portato a giocare sempre e subito il pallone”. Peccato che non ci sia un allenatore inglese vincente da decenni. “È vero, e quelli che ci sono hanno ancora una mentalità anni Ottanta. Gli allenatori europei – Guardiola, Klopp, Pochettino, Mourinho, ma prima ancora Wenger e altri – hanno portato intelligenza tattica”. Ci è voluto un po’ perché la rudezza del calcio britannico si facesse ingentilire, ma ora il mix delle due cose fa sì che, secondo Di Canio, le inglesi diventeranno sempre di più le squadre da battere. Curioso che in Europa League siano in finale due formazioni che fino a un paio di mesi fa tutti davano senza più obiettivi. “Il calcio è situazionale, ce ne dimentichiamo sempre: anche noi addetti ai lavori pensiamo di avere la verità in tasca e spariamo sentenze. Questa cosa io l’ho capita facendo l’allenatore, quando sono invecchiato di vent’anni in sei mesi, e provo a portarla nel mio lavoro di commentatore su Sky. Cerco di ragionare di più, di mettere il mio vissuto in quello che dico, con naturalezza. Mi immedesimo nelle squadre, mi sento allenatore di entrambe e così cerco di vedere nei dettagli pregi ed errori di tutte e due. E poi mi entusiasmo”.

 

Parlare di calcio con Di Canio fa venire voglia di dirgli “Paolo, facciamo due tende, stiamo qua per sempre a parlare di rimonte epiche, aneddoti di partite indimenticabili, tattica e appartenenza”. Già, perché non si può spiegare il calcio secondo Di Canio senza questa parola. “A me pare che molti calciatori oggi abbiano più il problema dell’apparenza, mentre il punto è proprio l’appartenenza. Quanti sanno che indossando una determinata maglia devono dare tutto per la gente che ama quei colori?”. Non è il discorso dell’ex calciatore invidioso della vita da star dei colleghi più giovani, il suo, ma il ragionamento di uno che ha sempre fatto più di quello che gli chiedevano. “Perché sui social devi farmi vedere che hai la macchina costosa? La tua vita è già esposta mediaticamente, tutti sanno che vai in vacanza a Formentera, preoccupati di appartenere più che di apparire”. Curioso, detto da uno che ha indossato molte maglie – Ternana, Lazio, Juventus, Napoli, Milan, Celtic, Sheffield Wednesday, West Ham, Charlton, ancora Lazio e Cisco Roma. Eppure sentendolo parlare di sé si capisce che l’appartenenza non è tifo, ma immedesimazione, un darsi totalmente. “I tifosi devono sapere che io in campo mi ammazzo per loro, per me giocare una partita era combattere le guerre puniche, o una battaglia medioevale: ero pronto a morire sul campo e loro lo sapevano”. È vero, ma di Di Canio non ce ne sono molti in giro. “Io invece credo che ce ne siano, almeno con la predisposizione a essere così. Ma questa predisposizione va alimentata”. Dall’ambiente, dalla società, dai tifosi. “Ovunque abbia giocato ho imparato a dare il massimo, anche se in situazioni diversissime: nella Juve e nel Milan ho assimilato mentalità e disciplina, Napoli era un posto stupendo dove si poteva giocare un calcio che piaceva a me, la Lazio il mio amore, l’Inghilterra il campionato per cui ero fatto”. In tutti questi posti le curve hanno cantato il suo nome. Eccessivo per natura, esuberante da sempre, racconta con gratitudine della multa che ai tempi della Juve Boniperti gli diede per essersi allentato la cravatta dopo essere sceso dall’aereo che riportava i bianconeri a Torino dalla trasferta vittoriosa di Parigi in semifinale di Coppa Uefa: “Anche questo crea una mentalità e una disciplina necessarie per capire che appartieni ai colori che indossi. Se penso all’appartenenza penso alle migliaia di bergamaschi che ogni anno si presentano al raduno dei tifosi dell’Atalanta e che vanno in giro per la città con la giacca nerazzurra durante la settimana. Penso ad Andrea Belotti che legge i nomi dei giocatori del Grande Torino davanti alla lapide di Superga: quando l’ho visto mi sono commosso”. I calciatori sanno che parlare di appartenenza “funziona”, ma quanti lo sentono veramente? “In Italia ci si concentra troppo spesso sul torbido, sulla dietrologia, e questo fa sì che i giocatori pensino soprattutto a quello, sentano una pressione negativa. Ho amici che tifano per molte squadre diverse, a sentirli parlare sembra che gli arbitri e il palazzo ce l’abbiano solo con la loro squadra: se tutti avessero ragione non ne resterebbe nessuna da favorire però. Anche chi si lamenta tutto l’anno di essere danneggiato poi magari vince qualcosa grazie a una svista arbitrale. Bisognerebbe smetterla di vedere complotti, passare più tempo a guardare i grandi gesti tecnici, parlare delle partite e non delle polemiche. In Inghilterra tutto questo non c’è, o c’è molto meno”. È più facile appartenere, volere morire sul campo per tifosi che ti applaudono per il semplice fatto che indossi la maglia che il padre ha insegnato loro ad amare. “Quando è così viene naturale spendersi fino in fondo per la squadra in cui giochi”. Di Canio la chiama “magia della Premier”, ma è chiaro che si tratta di un amore che gli scorre dentro alle vene e pulsa sotto la pelle. Non vede l’ora che si giochino queste due finali europee tra quattro squadre inglesi, così diverse tra loro “ma tutte con un’identità ben precisa”. Chissà se vorrebbe tornare a sedersi su una panchina, come ai tempi dello Swindon Town e del Sunderland. “Per adesso sono felice di allenare i telespettatori, farli entrare nel campionato più bello spiegandoglielo e facendoglielo amare. In realtà non ho mai smesso di allenare”. E di appartenere.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.