Dalla Juventus ai Lakers: quando il re non basta

Umberto Zapelloni

Cristiano Ronaldo senza Champions League e LeBron senza playoff Nba. La solitudine del campione che non salva la squadra

Il re è nudo. Ma non è solo. Anzi, è in ottima compagnia. Cristiano Ronaldo senza semifinali di Champions League è come LeBron James senza i playoff della Nba. Sono fuori dal loro regno, lontani dal loro habitat naturale, come due poveri delfini spiaggiati. Sottotitolo della storia: quando il re non basta. Nei giorni dell’inatteso e inaspettato ritorno sul trono di Tiger Woods, i re che devono giocare di squadra e non possono fare tutto da soli, tolgono il disturbo. Avessero scelto anche loro il golf… “Se tu compra Ronaldo solo per scudetto è come tu compra Belén solo per bacetto”, scrivono in rete imitando il mitico Boskov. “Se tu compra LeBron per non entrare in playoff è come tu compra Charlize Theron e ti addormenti nel letto”, si potrebbe aggiungere. È il fallimento di un’idea, ma non quello di un progetto. L’idea di poter vincere tutto con un campione solo non è mai praticabile in uno sport di squadra. Anche Maradona aveva bisogno di 10 compagni che non fossero solo comparse. Ma il progetto di arrivare a vincere tutto partendo dal più grande dei campioni non è sbagliato. Chi dice che senza Ronaldo la Juve aveva vinto lo scudetto, la Coppa Italia ed era arrivata in finale di Champions e che con Ronaldo ha vinto solo lo scudetto (e la Supercoppa) dimentica che senza CR7 probabilmente non avrebbe trovato la forza e la convinzione per ribaltare il risultato di Madrid con la partita più bella della sua stagione. Anche chi continua a sostenere che il campionato italiano non è allenante potrebbe fare un giro in Olanda per verificare di persona se l’Eredivisie lo è molto di più… La Champions è una manifestazione dove basta andare in bambola per mezz’ora per salutare la compagnia. La Juve ha trovato di fronte un Ajax che era più squadra, fondato sul gioco, sulle idee, sull’autostima e non sul colpo del fuoriclasse e si è signorilmente inchinata riconoscendo la superiorità dell’avversario. Pronta a ripartire dalle stesse basi: Agnelli-Allegri-Ronaldo. Attorno va costruita una squadra basata sul gioco e non sui nomi. Il sistema è più forte dei singoli perché il sistema difficilmente va in tilt, il singolo invece può incappare in una giornata negativa. Arriveranno nuovi campioni, qualcuno come Ramsey è già stato annunciato, ma la base è già buona e soprattutto giovane. Ora Allegri dovrà costruire un gioco diverso, un sistema che possa sopperire alle giornate no, un modulo che avvolga gli avversari e non si lasci soffocare.

 

Se l’asso si infortuna, come è capitato ai Lakers, ti può anche capitare di peggiorare il record (già brutto) dell’anno precedente: 37 vinte e 45 perse quest’anno, 35-47 un anno fa mentre LeBron trascinava in finale Cleveland diventando il primo giocatore della storia ad aver perduto una partita delle Finals dopo aver segnato più di 50 punti. Se chiedete a un tifoso dei Lakers, e ce ne sono tanti anche tra i vip di Hollywood, non ne troverete molti disposti a sostenere che non avrebbero voluto LeBron con la maglia con cui una volta dominavano Magic, Jabbar e Kobe Bryant. I Lakers non vincono il campionato dal 2010, anno del Triplete dell’Inter (ma qui il riferimento lo capiranno solo gli juventini). Ma per la franchigia più cool della Nba non arrivare neppure ai playoff è un fatto sportivamente inaccettabile che però si ripete ormai da sei anni di fila. Si è dimesso anche Magic, sì quel Magic lì, quello con il numero 32 sulla maglietta giallo-viola, quello dell’Aids combattuto e vinto. Dal 21 febbraio 2017 era il presidente. Ha detto stop per i disaccordi con la proprietà, ma anche per i risultati. Eppure un progetto che parte da LeBron non può essere sbagliato. Il re, prima di restare nudo, aveva trasformato i Cavaliers e Cleveland, la famosa “mistake on the lake”, l’errore sul lago, nei campioni Nba. Era solo il 2016. Non una vita fa. Per LeBron i playoff erano come il giardino di casa. Proprio come le semifinali di Champions per Cristiano. Ci arrivava sempre e spesso anche da solo, contravvenendo alle leggi degli sport di squadra. Ma se uno su cinque ce la può fare, uno su undici difficilmente può riuscire se la base non è buona. Una ciliegina su una montagna di panna montata è una cosa, una ciliegina su una montagna di schiuma da barba resta una ciliegina, ma fa tutto un altro effetto.

 

A uscire sconfitta è l’idea che possa bastare solo un campione per risolvere tutto. Ma non crediamo che fosse l’idea alla base dei pensieri di Andrea Agnelli e di Magic Johnson quando hanno ingaggiato Cristiano e LeBron. Beh, almeno ai playoff Magic probabilmente pensava di arrivarci, se Lebron non avesse saltato 27 partite (su 82) per infortunio… Ma questo è un altro discorso. Leggiamo gli ingaggi di Cristiano e LeBron come punti di partenza e non punti di arrivo e la prospettiva cambia. Lo sport non è matematica. Se aggiungi il miglior giocatore del mondo a una squadra che è arrivata due volte in finale di Champions non sei sicuro di vincere la coppa. Avrai più chance, certo, ma non è esattamente come fare 2+2. Non sempre arriva il 4. Se a una squadra finalista di Champions aggiungi il miglior giocatore del mondo e anche un gioco da squadra vera, una strategia più che una tattica, il 4 avrà molte più chance di uscire. Maestro Sacchi lo ha predicato tante volte. Ben sapendo che anche il suo grande gioco senza gli interpreti giusti (che erano Baresi e Maldini, ma anche Gullit e Van Basten) e una certa dosa di buona sorte (indispensabile in Champions) non avrebbe portato oltre la nebbia di Belgrado. I re che oggi sono nudi non resteranno in mutande (anche se sponsorizzate). Se non verranno lasciati soli il futuro sarà ancora loro.