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Perché ci piace la vittoria dei Toronto Raptors

Eugenio Cau

Gli sfavoriti che ottengono la vittoria finale contro avversari più forti e più ricchi. È uno dei grandi cliché dello sport americano. Ma uno di cui non ci stanchiamo mai e anzi, se possibile ne vorremmo di più

I Toronto Raptors hanno vinto le finali Nba, e già si comincia a celebrare uno dei grandi riti dello sport americano. I giornali parlano di uno dei playoff più belli della storia, gli analisti dissimulano stupore e si chiedono come sia stato possibile il miracolo, gli appassionati scrivono su Facebook che il basket è lo sport più bello del mondo e perfino chi il basket non lo segue mai da qualche giorno ha cominciato a guardare online gli spezzoni delle partite dei Raptors, gli underdog, le cenerentole, gli sfavoriti che ottengono la vittoria finale contro avversari più forti e più ricchi. È uno dei grandi cliché dello sport, e soprattutto dello sport americano, dove tutto è narrazione e tutto è pensato per favorire il colpo di scena finale: un paio di volte a decennio i campioni vengono battuti, i re detronizzati, le dinastie rovesciate, e il racconto sportivo riceve una scarica di retorica come quella che si produrrebbe da noi se il Bologna soffiasse lo scudetto alla Juventus. Nella Nba succede regolarmente, l’ultima volta fu nel 2011 con i Dallas Mavericks e prima ancora nel 2004 con i Detroit Pistons: è un cliché, ma uno di cui non ci stanchiamo mai e anzi, se possibile ne vorremmo di più.

 

  

I Raptors hanno vinto le finali Nba con un solo giocatore di altissimo livello, Kawhi Leonard, finito a Toronto quasi per caso la scorsa estate con un contratto da un anno soltanto e dopo un infortunio che ne aveva messo in dubbio la forma fisica e la forza caratteriale. Nell’Nba molti temevano che Leonard fosse perso, e l’avevano lasciato andare a Toronto (in Canada!) senza troppi rimpianti. Gli altri Raptors non sono esattamente delle stelle. Ci sono Kyle Lowry e Danny Green che sono buoni giocatori, ma non molto di più. C’è Marc Gasol, lo spagnolo che è stato un all star, ma che adesso ha 34 anni e si sentono tutti. Poi c’è Pascal Siakam, che fino a non troppi anni fa studiava per diventare prete cattolico in Camerun, e Fred VanVleet, una guardia che da giovane nessuna squadra Nba voleva, anche perché è alto a malapena un metro e ottanta. Poi c’è il coach, al suo primo anno da capo allenatore in Nba, che le sue cose migliori le ha fatte nelle serie minori e nel campionato britannico – non esattamente la Mecca del basket.

  

  

Con questa squadra, i Toronto Raptors hanno battuto i fortissimi Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo, e infine i Golden State Warriors, una delle squadre più forti della storia, ingegnerizzata nella Silicon Valley, che di giocatori di primo livello non ne ha uno, ma cinque. Quando i Raptors hanno vinto la prima partita delle finali, tutti abbiamo pensato a un errore. Ma più loro continuavano a vincere più l’eccitazione cresceva: vuoi vedere che ce la fanno? Ed eccoci tutti ricaduti nel vecchio cliché, felicissimi.

 

  

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.