La quasi marmorea indifferenza davanti alla scontata esultanza brasiliana
Ma sì, che volevate, la favola bella del Messico trionfante?
Era la notte dell’11 luglio 1982. Nel fragore dei boati che esplodevano in tutte le case d’Italia, non escluse quelle di un minuscolo paese della Pianura Padana chiamato Nosadello, un bambino di cinque anni scendeva tutto solo nel polveroso cortile del palazzo a piangere disperato, atterrito dalle urla ormai non più umane, dagli strepiti dei tivù color portati al massimo volume, dagli olé di uomini per solito misurati, quando non anche del tutto disinteressati alle misteriose direzioni di quella ipnotica sfera di cuoio, che ora correvano in mutande e sigaretta accesa sui pianerottoli e piombando negli appartamenti dei vicini parimenti inebriati. Al cospetto delle padane rovine comportamentali del palazzo in fiamme, il cinquenne – ignaro delle manifestazioni dionisiache che gli sarebbero toccate identiche una volta contratto il virus tifoideo – singhiozzava come davanti al crollo di un ordine, al terrificante sovvertimento di regole eterne. Quel bambino ero io. Ero figlio.
Luglio 2018. Non più ghiaiosi cortili e abrasioni alle ginocchia, non più palazzi dove d’estate condividere angurie e vodka (sì, a quel tempo le sciure riunite in cerchio sfidavano la calura notturna a colpi di bicchierini), non più Nosadello. Oggi quel figlio, passato con diversa consapevolezza e crescente eccitazione attraverso altri otto mondiali, vive altrove, in un più anonimo condominio, e per la prima volta dal trionfo di Pablito e soci, da quel traumatico (ma benefico) battesimo del calcio planetario, dei mondiali di calcio non ha visto nemmeno una partita. Oggi, quel figlio, è padre. Dopo decenni di militanza, di ossessione, di attese, di birre che si facevano calde sui davanzali, di notti passate a studiare mentalmente i possibili incroci degli ottavi, dopo otto vigilie vissute (ma è splendido abbaglio) come la cosa più importante fuori dagli affetti e dalla vita in prima persona, Russia 2018 è arrivato, iniziato e sta trascinandosi al suo epilogo senza che io abbia potuto fornire al riscaldamento pedatorio globale il mio immancabile, inutile, fondamentale contributo. Oggi sono padre. E visto che i miei figli sono molto piccoli e non sono ancora in vacanza con la madre e i nonni lasciandomi qui solo sul divano (mi mancherete!, ciao!, papà torna presto!), io, le partite del mondiale, non le vedo. Passo le serate tra i pericolosissimi tiri a pallone in salotto di Ludovico e i primi versetti di Agnese. Non c’è spazio per altro, nel bailamme domestico. Perché paternità, in questi momenti epocali, è rinuncia (non ditelo a mia moglie, che l’ho scritto). Vorrei dire che queste nuove responsabilità e queste nuove inesplicabili gioie di essere genitore di due meravigliosi frugoletti belli come puttini rinascimentali hanno distolto con naturalezza la mia mente dal calcio. Ma chi gabberei? Le partite, semplicemente, non le posso vedere.
Stante questa impossibilità, e complice l’invereconda eliminazione dell’Italia, mi sono inventato una marmorea indifferenza al mondiale che si sostanzia nell’ignorare completamente risultati, gol, polemiche, personaggi, nell’evitare i servizi al tiggì, snobbare tutti gli status Facebook degli amici calciofili e fuggire qualsiasi conversazione abbia per oggetto Mosca, la Russia o Lev Tolstoj. Non lo credevo possibile, eppure davvero non so niente, e non voglio sapere niente: chissà, forse riesco a sfangarla fino al 15 luglio, fingendo che nulla stia accadendo. Solo che poi il Foglio mi affida un pezzo per Brasile-Messico e allora, non avendo io le letture russe di Archetti né le passioni extra-calcistiche di Peruzzo grazie a cui svicolare sul merito della faccenda, grande è il rischio che crolli quell’artificiosa costruzione di autoesclusione emotiva. Tento dunque una visione distaccata, fredda. Già l’inquadratura dello stadio dall’alto e la lettura delle formazioni mi fanno vacillare. Sento sinistramente incunearsi sottopelle le peculiari sensazioni da mondiale: le respingo elucubrando sul Messico che a sorpresa per venti minuti fa la partita, ma non basta. Confido nella noia, nel tatticismo che pure non manca, poi mi rassegno pensando che chiusa la pratica, mia e dei brasiliani (ma sì, che volevate, la favola bella del Messico trionfante? Neymar fa il suo, la difesa verdeoro tiene bene, Firmino aggiorna le statistiche), la televisione tornerà muta e spenta, che io lo voglia o no. Mi godo almeno il simpatico Layun che calpesta Neymar e gli permette così di meglio rifinire la parte dell’epilettico per la recita di fine anno; ammiro in egual modo la bruttezza pasoliniana di Herrera e la corsa di Willian; sospiro impercettibilmente di fronte alla finale esultanza dei vincenti. No, non sono ancora immune dal morbo.
Al fischio di Rocchi, torno subito a giocare con Ludovico, che a ogni gol nella sua micro-porta esulta e abbraccia tutta la famiglia. Ama la palla, ha un bel destro, promette bene. Forse i Mondiali del 2022 riesco a vederli.
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