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facce da mondiali

Dr. De Bruyne e Mr. Hyde

Giovanni Battistuzzi

Il belga "ha sempre avuto un talento enorme. Nonostante questo però ha sempre lavorato un sacco per migliorarsi ancora". Un professionista esemplare che ogni tanto perde la testa

Chi perde sistema il campo. Questa era la regola. E lui non aveva perso. Era però rimasto in campo a calciare da fuori area, per migliorare la precisione del tiro. Gli altri se ne erano già andati quando tornò l'allenatore dagli spogliatoi. Gli chiese di portare i paletti nel deposito. Rispose di no, che lui aveva vinto e non era compito suo. Gli disse che erano due paletti e di non discutere. Rimase sulle sue posizioni, poi iniziò ad arrabbiarsi. Se chi aveva perso non aveva fatto il proprio compito non era colpa sua e che si dovevano vergognare. E quando i suoi compagni rientrarono in campo attratti dalle urla, lo videro avanzare verso di loro brandendo un paletto. Servirono tre persone per tenerlo fermo. Pretendeva che chi se ne era già andato tornasse per finire quello che doveva fare. Minacciava di stare lì sino al giorno dopo. "Eravamo in Spagna per un campo estivo", ricorda al Guardian Frank De Leyn, l'allenatore delle giovanili del Gent. "Dopo una lunga conversazione sono riuscito a convincerlo a lasciar perdere e siamo tornati all'albergo. Era testardo come un mulo, ma penso anche che sia questa testardaggine ad averlo reso il giocatore che è ora". Perché Kevin De Bruyne calciatore lo è diventato davvero, uno che riesce a fare la differenza al Manchester City, uno che, secondo il suo allenatore, Pep Guardiola, "è intelligente, umile e timido ma puoi vedere la qualità che ha: siamo fortunati ad averlo".

 

De Bruyne, secondo De Leyn, "è un ragazzo eccezionale, capace di dare tutto per gli altri. E' gentile e riservato, di sani valori, ma ogni tanto si trasforma. Diventa una furia. Accade quando percepisce che c'è chi fa le cose tanto per farle". Sarà forse che "ha sempre avuto un talento enorme, è sempre stato un giocatore superiore alla media. Nonostante questo però ha sempre lavorato un sacco per migliorarsi ancora, compiendo anche scelte non facili".

 

 

Come quando a 14 anni disse al Gent, la sua società, che se ne voleva andare al Genk, dall'altra parte del Belgio, perché "voglio diventare un calciatore e hanno allenatori e strutture di allenamento migliori". Come quando la nuova squadra gli disse che se continuava a usare solo il destro non sarebbe andato da nessuna parte, lui decise che da quel momento la palla l'avrebbe toccata solo con il sinistro. Finì in panchina, non giocò più per quattro mesi, sino al termine della stagione. Quando però si ripresentò al primo allenamento di quella successiva calciava con la stessa precisione con entrambi i piedi. Non uscì più dal campo. Come quando si prese a manate con i suoi compagni della Nazionale Under 21 perché non ci mettevano abbastanza impegno in allenamento e non venne più convocato. Disse: "Si tengono i lassisti e cacciano me. E poi si lamentano che il Belgio non vince niente a livello internazionale". Come quando, dopo una buona stagione al Werder Brema, ritornò al Chelsea per stare in panchina e andò da José Mourinho chiedendogli di essere ceduto in prestito per giocare. Il tecnico portoghese gli rispose che da Londra non si sarebbe mosso perché era forte e prima o poi sarebbe arrivata un'occasione. Arrivarono tre partite da titolare in Coppa di lega e tanta tribuna. Chiese di nuovo spiegazioni al tecnico. Mou gli presentò un fascicolo di statistiche – passaggi andati a buon fine, dribbling eccetera – e sottolineò che gli altri avevano dati migliori, quindi avrebbero giocato loro. De Bruyne lo guardò e gli suggerì di mettersi le statistiche in quel posto. Fu ceduto al Wolfsburg. Un giorno alla porta dei tedeschi bussarono i dirigenti dell'Everton con un'offerta di quelle che non è facile rifiutare e lui disse che con la seconda squadra di Liverpool non parlava, perché tifava i Reds e perché lì non avrebbe mai imparato nulla. Rimase in Germania un'altro anno, poi firmò per il Manchester City.

 

In Inghilterra con Manuel Pellegrini sulla panchina dei Citizens disputò una buona stagione, "ma potevo e dovevo fare meglio". Poi arrivò Guardiola. "Tatticamente è il miglior manager con cui abbia mai lavorato", ha detto De Bruyne. "Pensiamo al calcio in un modo simile. Mi piace il suo stile e capisco rapidamente le sue idee. Questo è uno dei motivi per cui mi sento così bene".

  

Con Guardiola De Bruyne è diventato uno dei più forti centrocampisti al mondo, ha iniziato a giocare ovunque. Era un trequartista, è diventato un giocatore a tutto campo. Per esigenze tattiche Guardiola è stato costretto a schierarlo come centrocampista centrale, esterno, trequartista, attaccante, falso nueve alla Messi e una volta pure il terzino. Lui non si è mai lamentato. Anzi: "Giocare in diverse posizioni mi ha fatto bene. Mi ha aiutato a entrare nella testa degli altri giocatori: ho capito cosa si deve fare per rispettare il ruolo, in che modo ci si deve muovere. E come fare a fregarli". E' diventato ancor più imprevedibile di quanto era prima di incontrare Pep.

 

E quando dalla Cina gli hanno proposto un contratto di 40 milioni di euro all'anno, lui ha detto: "Il vostro campionato non vale niente. Io voglio diventare il migliore al mondo, non il più ricco".

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