Un tifoso della Colombia ai Mondiali di Russia 2018 (foto LaPresse)

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Antonio Gurrado

E’ giusto il fair play? Una partita perfetta è brutta? Spunti per parlare del Mondiale in modo profondo

L’esclusione dai Mondiali favorisce l’analisi astratta del calcio e l’audience delle partite su Mediaset comprova che agli italiani piace porsi nella condizione che Adam Smith definiva di “spettatori simpatetici imparziali”. Per questo ci appassioniamo a questioni quodlibetali di tal fatta: è giusto che la Fifa stabilisca i piazzamenti in base al fair play? In fondo, da statuti calcistici, il fair play consiste nell’“agire secondo principii etici che si oppongono al concetto di successo sportivo a ogni costo”, quindi si tratta di un criterio estraneo allo scopo del gioco, che è prevalere sugli avversari trovando modo di segnare una rete in più. Ottima guida per queste discussioni può essere “La partita perfetta” (Utet) di Corrado Del Bò e Filippo Santoni de Sio, che insegnano rispettivamente alla Statale di Milano e alla Delft University of Technology garantendovi così il primato teorico nelle vostre chiacchiere da bar.

 

Esempio di scuola. Prendiamo un tifoso della Juventus che volesse calcolare il ruolo di virtù e fortuna nella famigerata eliminazione contro il Real Madrid. Secondo Machiavelli, sarebbe stata dovuta all’incapacità di approfittare dell’opportunità offerta dalla sorte. Secondo Aristotele, la Juve avrebbe difettato nella coltivazione di un carattere virtuoso, ossia di un habitus inveterato che le avrebbe consentito di prevalere senza patemi. Un tifoso della Juve abbastanza filosofo sarebbe andato a dormire sereno, senza parlare né di cuori né di bidoni dell’immondizia, consapevole che il calcio è falsato da una “visione tragica” per cui il generoso rigore accordato all’ultimo secondo viene imputato della sconfitta pur avendo la medesima incidenza di tutti gli eventi occorsi nei precedenti centottanta minuti più recupero.

 

A ciò si connette la retorica su vincitori morali e risultati che vanno stretti, che presuppone la distinzione fra il merito e il metodo di attribuzione della vittoria. Il problema è che quando diciamo che chi ha perso ha meritato di vincere stiamo, argomentano gli autori, “disapprovando le regole che consentono questa disparità”. Se però le cambiassimo – ad esempio stabilendo che vince la squadra che ha collezionato più possesso, corner e legni oltre che reti – avremmo creato uno sport più giusto che non sarebbe il calcio. Restano alcuni casi controversi. E’ giusto impostare una partita a eliminazione diretta sul tentativo di arrivare 0-0 ai rigori perché si ha un portiere in grado di pararli tutti, o contraddice lo spirito del gioco? Lampante è il paradosso del fallo tattico, punito con l’ammonizione in quanto antisportivo ma inserito nelle strategie agonistiche; per tacere del Var, che secondo tifosi e allenatori sacrifica all’etica la continuità estetica della gara.

 

Molteplici soluzioni

Le soluzioni per districarsi sono molteplici e vanno dal tirare i rigori prima dei supplementari (lo aveva proposto Juan Carrillo, bocciato) all’istituire una giuria di qualità che faccia vincere la squadra più meritevole anche se ha perso (altra provocazione degli autori). E’ un dilemma da cui si può uscire solo spostandolo sul livello assoluto, cercando di capire quale sia la partita perfetta che realizzi l’ideale di calcio. Secondo Gianni Brera era la partita senza errori, che finiva 0-0. Ma soddisferebbe i requisiti della definizione di calcio? Improbabile. Stranamente gli autori non citano Kant né la sua definizione del bello come finalità senza scopo: riteniamo bella una partita indipendentemente dal numero di reti o dalla vittoria o dall’incasso di una scommessa o dall’averla vista in uno stadio gremito o dal suo essere decisiva; per quanto ciascuno di questi fattori contribuisca, nessuno basta a esprimere in modo univoco ed esauriente la bellezza del calcio cui soggiace un’armonia priva di interesse diretto o scopo determinato o definizione concettuale.

 

Nel corso di un Mondiale pittoresco ma non eccelso è curioso notare che, se si giocasse una partita perfetta, nessuno la guarderebbe perché sarebbe brutta. Consisterebbe in una squadra che prende palla al calcio d’inizio e la mantiene fino a segnare a fine primo tempo così da non lasciare nessun margine agli avversari, i quali farebbero esattamente lo stesso nel secondo tempo. Finirebbe 1-1 e per decidere chi vince bisognerebbe ricorrere al criterio del merito e della correttezza, dimostrando che il meglio è nemico del bene e che, ricercando la perfezione, si rischia di trasformare una partita bella in una partita buona, con conseguente crollo dell’audience.

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