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Contro la favola dei Mondiali

Jack O'Malley

Manuale di resistenza alla retorica delle piccole che fanno lo sgambetto alle grandi a Russia 2018

Londra. Il primo giro di partite ai Mondiali, quello che si conclude martedì, è come il primo giro di pinte al pub: son buoni tutti lì, anzi spesso i finti bevitori risultano più brillanti, per poi stramazzare a metà del secondo. Il primo giro di questo Mondiale, poi, ha l’aggravante di essere eccitante come una birra calda. Partite bruttine, pochi gol (sia lodato ora e sempre Cristiano Ronaldo che ci salva dalla noia delle cose già sapute), ma soprattutto l’incubo di ogni competizione sportiva: LA FAVOLA.

 

Di solito la favola salta fuori a metà torneo, quando le idee dei giornalisti sportivi scarseggiano, qualche grossa squadra è stata eliminata e due o tre campioni sono già a trapanare su qualche spiaggia di lusso in favore di tabloid. Ci si accorge allora della Nazionale sfigata che zitta zitta è arrivata agli ottavi di finale, ci si rende conto che i suoi titolari sono più sconosciuti dei finalisti del Premio Strega, si cerca qualche storia su Google, si fa forte uso del traduttore lingua minore-italiano, e si racconta la favola. Ai Mondiali di Russia abbiamo sbracato subito, invece. Ci sono già almeno tre-quattro favole belle pronte: ovviamente l’Islanda, con gli stessi aneddoti e gli stessi cori di due anni fa agli Europei (i tifosi in trasferta che sono il 12 per cento della popolazione, i vichinghi, la dieta, l’allenatore-dentista); ma come dimenticare la favola del Messico, che vince contro i campioni del mondo in carica, o la favola del Senegal che torna ai Mondiali dopo sedici anni?

 

In attesa delle favole interrotte di fine girone, ci sono le favole personali, tipo Gabriel Jesus che nel 2014 “dipingeva le strade di San Paolo” (lacrima per il-calcio-come-mezzo-di-emancipazione-sociale in 3,2,1…), o – cito – “la favola russa dei gemelli Miranchuk”, che non ho voluto approfondire ma mi pare roba da far concorrenza a Masha e Orso.

 

L’unica favola accettabile è quella di Panama, il cui allenatore Gómez – soprannominato El Bolillo, il rotolo – ha promesso di scolarsi due bottiglie di vodka in caso di passaggio del turno (data la bassissima probabilità che la cosa succeda, io avrei promesso l’opposto, ma nessuno è perfetto).

 

Lo dico con una perifrasi: la favola ai Mondiali ha già ampiamente rotto le palle. E non solo perché se tutto è favola niente lo è più, ma anche perché io non sono disposto a guardare un Mondiale di favole: vorrei il Brasile che le vince tutte (e poi perde in finale), la Germania che asfalta gli gnomi, il Belgio che insegna calcio a qualche squadretta asiatica o centroamericana, la Spagna che diventa porto aperto alle vittorie, soprattutto l’Inghilterra che si ricorda di essere il paese in cui il calcio è stato inventato. In questa ridotta conservatrice si fa il tifo per l’antifavola, per le squadre brutte, tradizionali, cattive e possibilmente vincenti. Provo tenerezza per chi ha già tratto conclusioni apocalittiche sulle grandi che hanno steccato all’esordio (la resistenza all’alcol si vede nel medio e lungo periodo, ricordate). Ma mai quanta quella che sento per chi riesce addirittura a sostenere che “visto il livello delle big l’Italia ci sarebbe stata benissimo in questo Mondiale”: ecco, quella sì che è una favola.

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