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Le grandi città sono e resteranno eterne

Roberto Volpi

Ma quale fuga dai centri urbani: il numero di chi ci abita continua a crescere, anche nell’Italia che si spopola. Forse non è vero che ci si vive così male

Dalle grandi città moderne, e più ancora da quelle che ci aspettano nel futuro, si fugge. Per definizione. Non si contano i romanzi e i film, soprattutto ma non solo di fantascienza, in cui colonne di uomini e donne, vecchi e bambini lasciano le città in tutta fretta, con qualunque mezzo, tirandosi dietro un po’ di carabattole arraffate nella fuga. Anche a piedi, spingendo carretti e carrelli della spesa, se proprio non c’è altro per la bisogna. Ma in modo particolarissimo con le auto, file interminabili di auto una appresso all’altra, strombazzanti prima, rabbiose magari, poi via via sempre più rassegnate al proprio destino

Il destino, giusto lui. Il destino che vuole la grande città, la metropoli, la megacity aggredita e piegata e sopraffatta da virus che nella sovrappopolazione seminano stragi; da terremoti e incendi e calamità naturali di tutti i tipi; da scoppi di delinquenza di massa e da scontri razziali con tanto di devastazioni e saccheggi e tiro al bersaglio su quanti non si affrettano a darsela a gambe; quando non da guerre vere e proprie, tradizionali o niente affatto tali. Scenari distopici, si dirà. Ma non ci giureremmo. Accendiamo la televisione e ci imbattiamo nella grande città quasi sempre al negativo. Omicidi, sparatorie, rapine a mano armata, incidenti stradali a bizzeffe. Non c’è che l’imbarazzo della scelta; a volte ci si mette pure la violenza delle forze dell’ordine, in sovrappiù. E poi l’inquinamento, ovviamente, le polveri sottili. E le baby gang. E gli scontri di religione. E le banlieue. E il bullismo nelle scuole. E il degrado urbano. No, dico, basta così o si deve continuare?

Dalle città si scappa, dunque. Nella realtà, non può che essere così per motivi di coerenza con quel che della città si mostra; nella finzione è tutto un fumo che si alza in volute tra grigie e nere dalle città in procinto di venire abbandonate, quando non già a metà diroccate. Ma allora, chi vuole mai abitare nella città? Chi? 

Ed ecco l’ovvia – ovvia, lo vedremo – risposta: tutti, pressappoco. 

Lo scoppio della popolazione mondiale dagli anni Cinquanta a oggi? E quello che si prefigura prima ancora che la popolazione attorno al settimo decennio del secolo inverta la rotta, ancora ma non per molto prepotentemente crescente? Uno scoppio rurale, forse? No, cittadino, sempre più schiettamente cittadino. E meglio ancora: della grande città. Il formidabile balzo della popolazione mondiale è stato, è e sarà all’insegna della città, della grande città, della megacity. In termini di abitanti non ci sono dubbi, vale il detto evangelico: “A chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere” (Luca 8,18). Da qui al 2035 la popolazione mondiale crescerà ancora di qualcosa più di un miliardo. Bene, il 70 per cento di questo aumento sarà appannaggio della grande città con oltre 300 mila abitanti. Va da sé che il restante 30 per cento andrà comunque a ricadere in ambiti e territori cittadini. Dalle campagne e dalle montagne, dalle aree rurali, piuttosto, ecco, da qui è tutto un lasciare o, quantomeno, uno stazionare sulla difensiva. Ma stazionare, in un mondo di popolamento esponenziale, equivale inesorabilmente ad arretrare.  

È questo il solco, dunque; e pure se lo volessimo non ci sarà modo di uscirne, di tralignare. È un mondo all’insegna della città, quello nel quale viviamo e pure quello che ci aspetta. Dunque, se ancora non lo abbiamo fatto, o non lo stiamo facendo a sufficienza: prepariamoci.

Qualche cifra, indispensabile per avere un’idea più precisa delle dimensioni del fenomeno. Nel 1950 la terra aveva poco meno di 2,5 miliardi di abitanti; nel 2020 i miliardi sono diventati 7,8. Le città con oltre 300 mila abitanti erano 305 nel 1950, per un totale di 419 milioni di abitanti; vertiginosamente inerpicatesi fino a diventare 1.860 nel 2020, per un totale di 2,6 miliardi di abitanti. Dunque gli abitanti della terra sono triplicati, mentre quelli delle grandi città sono cresciuti addirittura di sei volte, a un ritmo doppio. E a un ritmo molto più che doppio, quasi triplo, se confrontiamo l’aumento degli abitanti delle grandi città con quello degli abitanti della terra al netto delle grandi città. A oggi ogni tre abitanti della terra uno abita in una grande città di oltre 300 mila abitanti, tra un’altra dozzina d’anni saranno 4 su 10 ad abitare nelle città di queste dimensioni. Se poi dalle grandi città si passa alle medie e alle piccole città, alle cittadine, bene, a quel punto è perfino difficile dire quale sia la proporzione di popolazione urbana sul totale della popolazione della terra: la stragrande maggioranza, indubbiamente.

Al primo posto della graduatoria per proporzione di abitanti che vivono in città di oltre 300 mila abitanti c’è l’Australia, con il 70 per cento della sua popolazione. Ma l’Australia ha solo 26 milioni di abitanti. Se ci si muove attorno a un altro ordine di popolazione, allora sono gli Stati Uniti a primeggiare, con ben 208 su 335 milioni di abitanti che vivono nelle città di quella dimensione (il 62 per cento, due abitanti su tre). Ma è la Cina ad avere il record del numero di città con oltre 300 mila abitanti, che sono oggi 426, dalle 33 che erano nel 1950. Anche la Cina ha una proporzione altissima di abitanti che vivono in città di quelle dimensioni: ben il 44 per cento, superiore di non molto al 40 per cento della Russia e il doppio del 21 per cento dell’India, che pure con 181 città con oltre 300 mila abitanti si colloca, per numero di queste città, immediatamente dietro alla Cina (426) e prima degli Stati Uniti (144).

I tempi della crescita delle grandi città, quelli sembra che una mano superiore li abbia apposta sfalsati per evitare la zuffa. Ha cominciato l’occidente, ben prima della Seconda guerra mondiale, ma segnatamente negli anni Cinquanta-Sessanta. A ruota è seguita l’America Latina; poi l’Asia dagli anni Ottanta; negli ultimi venti anni irresistibilmente l’Africa. Nel 1950 ben sette città tra le prime trenta più grandi del mondo appartenevano agli Stati Uniti, più della metà erano situate in occidente e Roma e Milano, appaiate, occupavano nella graduatoria rispettivamente la 27esima e la 28esima posizione. Nel 2020 solo quattro delle prime trenta città per abitanti sono occidentali; la prima, New York, è scesa dalla prima posizione del 1950 all’undicesima del 2020: le altre sono Mosca, Los Angeles e Parigi, in fondo alla graduatoria delle prime trenta. Nel 2035 l’occidente sarà praticamente uscito dalla graduatoria delle città più grandi del mondo. Non resteranno tra le prime trenta che New York e Los Angeles, peraltro in posizioni di rincalzo, e niente altro, non una sola città europea. Roma, per allora, sarà scesa al 147esimo posto; Milano più in giù del 200esimo. In fatto di megacity, ovvero delle città con più di 10 milioni di abitanti, il rimescolamento delle posizioni di testa è già un fatto compiuto; nel futuro diventerà la nota dominante del popolamento del mondo: con il loro spostamento radicale dal nord al sud del mondo. Ad oggi, di 34 megacity con più di 10 milioni di abitanti, 21 sono asiatiche, 6 latinoamericane, 4 nordamericane ed europee, 3 africane. Le megacity con oltre 10 milioni di abitanti saliranno a 45 nel 2035, con un aumento di 11 nuove megacity, delle quali ben 9 asiatiche, solo una occidentale e una africana. Non ci si lasci ingannare dal basso numero, solo 4 nel 2035 e 3 oggi, delle megacity africane. Nel 1950 appena 19 milioni di africani vivevano in città di oltre 300 mila abitanti; oggi sono più di 300 milioni e la loro crescita è esponenziale. Il Cairo, Lagos e Kinshasa sono già oggi tra le più grandi città del mondo, avranno attorno ai 25 milioni di abitanti nel 2035 e saliranno nelle prime posizioni della graduatoria, mentre Lagos potrebbe diventare la prima città del mondo, con una popolazione a sfiorare i 50 milioni tra una trentina d’anni.

E l’Italia? L’Italia a stare alla Population Division dell’Onu riserva sorprese. Proprio così. La grande ammalata, demograficamente parlando, è, se si esclude la Russia, il primo paese europeo per numero di città con oltre 300 mila abitanti (32), e al secondo posto, dietro alla Gran Bretagna, per numero di abitanti che in queste città vivono: nel 2020 poco più di 26 milioni. Che equivalgono al 44 per cento della popolazione italiana di quell’anno. Proporzione che affianca quella cinese e che indiscutibilmente connota una popolazione in senso urbano, profondamente cittadino. Cresciute in modo particolarissimo nei venti anni tra la seconda metà dei Cinquanta e la prima metà dei Settanta del secolo scorso, le città italiane con più di 300 mila abitanti se si seguono i confini comunali in realtà non sono che dieci, e non 32 come invece certifica la Population Division, che però, senza voler entrare in dettagli tecnici poco interessanti, utilizza criteri che prescindono da questi confini quando non si abbia una vera soluzione di continuità tra un centro abitato e un altro. Decisamente più interessante è notare che mentre la popolazione italiana è data in contrazione fino a 57,3 milioni nel 2035, a quella data le città con oltre 300 mila abitanti supereranno i 27 milioni di abitanti, cosicché mentre la popolazione generale fletterà di quasi due milioni di abitanti nel frattempo gli abitanti delle grandi città aumenteranno ancora di 1,1 milioni, finendo così per rappresentare oltre il 47 per cento della popolazione italiana. Tempo dunque un’altra quindicina d’anni da oggi e metà della popolazione italiana abiterà in città di oltre 300 mila abitanti. Un dato che ci impone più di una riflessione sui caratteri dello spopolamento italiano, uno spopolamento in atto da quasi una decina d’anni e destinato a intensificarsi, ma in modi tutt’altro che uniformi, anzi assai dissimili tra i territori. Si salverà la città. O, meglio ancora, la grande città. E lo farà in modo particolarissimo non già perché la dinamica demografica naturale contrassegnata dalla differenza tra natalità e mortalità sia così dissimile tra un’area e un’altra: in verità si nasce poco in tutta Italia senza eccezioni (a parte la provincia di Bolzano, estrema propaggine italiana), e data l’anzianità della popolazione si tende a morire ben di più di quanto non si nasca (quasi il doppio) in tutte le regioni italiane. La grande città si salverà perché i movimenti di popolazione sono giusto quelli che abbiamo detto all’inizio: nient’affatto via dalla città, ma tutto il contrario: dai monti e dalle colline, dalle aree rurali e periferiche alla grande città, dalle zone poco abitate a quelle più abitate, dalla rarefazione all’accentramento della popolazione.

Ed eccoci allora alla conclusione. Non può essere un caso, un fenomeno di questa persistenza e di queste dimensioni, cominciato in occidente già prima della Seconda guerra mondiale, pur se esploso subito dopo, e approdato assai recentemente in quell’Africa che sta conoscendo uno sviluppo urbano tanto caotico quanto irresistibile. Non può essere un caso se presenta in sommo grado questo carattere della pervasività, della diffusività che non teme paragone coi virus peggiori. Non c’è area del globo, praticamente, che se ne possa dichiarare immune: tanto lo sviluppo della grande città di oltre 300 mila abitanti quanto quello delle megacity di oltre 10 milioni di abitanti delineano nel mondo, nel mondo nella sua interezza, su piani diversi di affollamento, l’irresistibile tendenza della popolazione umana ad addensarsi, a esplodere in densità urbane sempre date per invivibili e tuttavia sempre vincenti. Si dovrà pure indagare un fenomeno di questa durata, questa diffusione, questa persistenza, questa capacità di proiettarsi nel futuro ancora da scrivere. E invece niente, o molto, troppo poco. Solo analisi di risulta, pigre, piagnucolose su quanto è frenetica e pericolosa e inaffidabile la città, specialmente se grande, dalle quali non si può che dedurre che l’umanità, visto che preferisce il caos alla tranquillità, il rischio e il pericolo alla vita senza scosse e sussulti, l’umanità nella sua interezza, non un suo segmento più o meno circoscritto, non può che essere un tantino insana.

Stiamo ancora qui, con l’approfondimento: a una logica, ma sarebbe preferibile chiamarla epidemiologia del rischio. Una epidemiologia che sembra salvifica e che invece è monca e, a proposito di rischio, rischia di farci capire assai poco di quel che succede e di quel che si prepara. Ci si chiede di leggere il futuro come uno slalom ininterrotto tra rischi da evitare; la vita un continuo conteggio di calorie e colesterolo e pressione arteriosa. Fortunatamente siamo più scafati, e pure più leggeri, di così. E corriamo dove vediamo opportunità e occasioni, anche delle meno raccomandabili, è inevitabile, ma opportunità e occasioni e speranze e possibilità. Perché non ci sono solo i rischi. Ed ecco perché dalle città non si fugge, come sembrerebbe perfino ovvio fare, visto tutto quello che vi succede di brutto e di rischioso. Ma semmai vi si accorre, da quegli animali sociali che siamo e che prediligono le compagnie, anche le cattive, alle non compagnie. Anzi, visti i dati nel mondo, in tutto il mondo, togliere il “semmai”. Vi si accorre. Punto. Non ultimo anche perché è nelle città, nelle grandi città, che si vive di più. Lo direste mai, a sentire i telegiornali?

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