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Tendenze negative

Dalla crisi demografica nasce una società che pensa solo al presente

Gian Carlo Blangiardo

Se i dati confermassero la tendenza dei primi otto mesi per l’undicesimo anno consecutivo l'Italia infrangerebbe il record negativo di nascite: quello che serve è un'alleanza tra generazioni

Se i dati sulla frequenza di nascite nel terzo quadrimestre del 2023 dovessero confermare la tendenza dei primi otto mesi (-3 per cento), avremmo migliorato in negativo, per l’undicesimo anno consecutivo, il record della più bassa natalità di sempre, nella storia del nostro paese. Una conquista che forse non converrebbe mettere tra quelle di cui vantarci. Anche perché l’ormai consueto viaggio nella denatalità ci sta già facendo toccare con mano – e ci ha prenotato senza scampo per i prossimi decenni – una società con leve giovanili ridotte ai minimi termini, con sempre meno potenziali mamme – per le poche bambine ereditate dal passato – e con un vasto popolo di nonni e bisnonni. Una presenza, quest’ultima, la cui collocazione nelle fasce d’età più anziane, usualmente (e doverosamente) accolta a livello individuale con affetto e cura entro la rete familiare, diventa nella valutazione collettiva qualcosa di molto problematico se messa in relazione con gli equilibri di welfare in una società che deve necessariamente fare i conti con le fragilità e i bisogni connessi all’invecchiamento demografico e ai cambiamenti che porta con sé. Non a caso, guardando ai decenni che verranno, va sempre più accreditandosi l’immagine di un paese dove, con la perduta vitalità nel ricambio generazionale, rischia di venir meno anche l’interesse/incentivo a investire nel futuro. Oggi le statistiche ci dicono che abbiamo mediamente vissuto 46 anni e che ce ne restano, sempre ragionando a livello di (aspettativa) media, circa 8 in meno (ossia altri 38).

Nel secondo Dopoguerra, allorché si costruiva il “miracolo economico”, gli anni mediamente vissuti erano 32 e quelli ancora da vivere – alle pur meno favorevoli condizioni di sopravvivenza di allora – ben 9 in più (41 pro capite). Se dunque possiamo dire, con motivata soddisfazione, che la durata della vita (vissuta e attesa) si è mediamente allungata di 11 anni – dai 73 del 1951 agli 84 del nostro tempo – dobbiamo anche prendere atto che il divario tra la strada percorsa e quella da percorrere si è invertito di segno. Ma si può realisticamente pensare che un popolo già oltre la metà del cammino della vita (quand’anche mediamente) abbia mantenuto intatti gli stimoli a investire e a innovare? È lecito ritenere che si sia ancora orientati/disposti a guardare al futuro e a sacrificare, ove necessario, i consumi e il benessere del presente? L’italiano “investitore” del secondo Dopoguerra, pronto a mettere in campo energie e risorse al fine di costruire “il domani” (per altro ricostruendo un paese) per sé e i propri cari, è forse destinato a venir soppiantato dalla comoda figura dell’italiano “manutentore”? 

Dobbiamo renderci conto che l’orientamento a vivere nel presente, o anche solo nel breve periodo, rappresenta una resa improponibile, tanto per il singolo quanto per l’intera collettività. Per affrontare la sfida demografica è più che mai tempo di chiamare all’appello tutte le parti in causa: la politica, le istituzioni che operano sul territorio, il privato sociale, il mondo delle imprese. Occorre tuttavia che vi sia un valido regista (auspicabilmente lo stato), capace di coordinare ma anche (soprattutto) di spingere le altre componenti a fare ognuna la propria parte; ad agire su quelle leve, che pur esistono, in grado di correggere e rimettere in moto, nel pieno rispetto delle libere scelte, alcuni processi decisionali, spesso sospesi lungo i percorsi di vita, e risvegliare alcune potenzialità sopite. L’obiettivo del mezzo milione di nati annui da raggiungere in tempi brevi, lanciato agli Stati generali della natalità, non è un’impresa impossibile. Si tratta di intervenire aiutando, con appropriati interventi, i percorsi di autonomia dei giovani; favorendo l’abbreviazione dei tempi della genitorialità, quando voluta; insistendo nel considerare come scelta strategica da perseguire – e da supportare sul piano delle “3C” (costo, cura, conciliazione) – il passaggio al secondogenito.

Ci sono poi gli interventi sul fronte migratorio, mirati al controllo dei flussi – per volgerli da passivamente subìti a razionalmente governati – riconoscendo il loro contributo con uno spirito di collaborazione reciproca indirizzata alla piena integrazione. Senza per altro dimenticare anche l’avvio di una convincente azione di contrasto al fenomeno della nostra emigrazione, spesso di giovani con formazione competenze che sono tanto elevate, quanto sono basse le opportunità di averne riconoscimento in patria

Infine c’è il tema del come porsi nei riguardi della componente anziana: i “diversamente giovani”. Dietro ai nonni del Ventunesimo secolo non ci sono infatti solo istanze e bisogni legati al welfare, c’è anche un patrimonio di esperienze e di competenze che sarebbe colpevole relegare in soffitta. Si dovrà però creare un contesto normativo e culturale che sia in grado di valorizzarle. L’obiettivo è quello di consentire un gratificante impegno, liberamente scelto e modulato secondo interessi e potenzialità, che sia anche concepito secondo una visione di quella stessa interazione e alleanza tra le generazioni che l’arte ci regala nel gruppo scultoreo “Enea, Anchise e Ascanio” mirabilmente animato nel marmo di Gian Lorenzo Bernini.

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