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Il paradosso contabile

Denatalità e affitti: così le pensioni hanno tolto soldi a casa e famiglia

Giuliano Cazzola

Non ci sono solo la precarietà e la crisi degli alloggi. La scarsità di risorse destinate ai nuclei esaspera l’inverno demografico: un “abuso sociale” compiuto in nome della previdenza

Tra gli eventi della settimana trascorsa due sono legati da un comune filo rosso che da decenni viene occultato per non svelare gli “abusi sociali” compiuti in nome delle pensioni. Mi riferisco ai c.d. Stati generali sulla natalità e alla “rivolta del Maidan” delle tende canadesi davanti agli Atenei delle più importanti città. Ma perché in Italia non si attua da tempo una politica della casa? Per gli stessi motivi per cui si è dismessa una politica appena decente – e solo di carattere monetario – a sostegno della famiglia. E qui sta il punto chiave.

 

Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana assegna il 4 per cento della spesa sociale, che è la metà della media europea. In termini di pil alla maternità e ai figli è dedicato circa l’1 per cento, che è  pari a 1/17 di quanto è destinato alle pensioni. Dal 1995 a oggi vi è stata una spoliazione di risorse dalle politiche per la famiglia (e la natalità) a quelle pensionistiche. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso, la spesa per assegni familiari (Af) era pressoché corrispondente a quella per le pensioni. Gli Af allora erano misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare (Anf)  il principale strumento per la famiglia ragguagliato al reddito e al numero dei componenti. La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla legge Dini-Treu nel 1995 (dettata, parola per parola, dai sindacati) stabilì, a copertura, una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò dal 27,5 al 32,7 per cento (poi al 33). Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, a oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota dell’Anf passò dal 6,2 al 2,48 per cento, quella per la maternità dall’1,23 allo 0,66 per cento. Altri tagli riguardarono gli ammortizzatori sociali. E la politica della casa?

 

L’aliquota ex Gescal (per finanziare l’edilizia popolare) passò dallo 0,70 allo 0,35 per cento e infine allo  zero assoluto. In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili  fu di 4,6 miliardi di lire per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi.  A prezzi 2008, le risorse disponibili trasferite alle pensioni corrisposero a 8,5 miliardi l’anno. Più chiaramente –  come documentò  la Cei nel saggio “Il cambiamento demografico” (Laterza)  – dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, mobilitò un volume finanziario di circa 120 miliardi di euro. Ma non basta; perché all’interno della Gestione prestazioni temporanee dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali “minori” in quanto non pensionistiche), la voce “assegno al nucleo familiare” – nonostante la riduzione dell’aliquota – continuò a incassare dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto spendeva: l’avanzo veniva riversato, nella logica del bilancio unitario dell’Inps, nel calderone delle gestioni pensionistiche e delle altre prestazioni.

 

Anzi il paradosso contabile era tale per cui, quando un governo decideva di aumentare nella legge di bilancio l’Anf, non si avvaleva degli avanzi di bilancio, ma stanziava direttamente le risorse occorrenti. L’istituzione dell’Assegno unico universale (Auu) ha rappresentato l’inizio di un’inversione di rotta con novità importanti. Tuttavia, vengono segnalati alcuni limiti. In primo luogo, la quota universale è relativamente bassa, rispetto ad altre esperienze. In Germania – dove le recenti politiche familiari sono riuscite a frenare la denatalità e a invertire la tendenza – l’importo della parte universale è superiore ai 200 euro. Un altro punto di riferimento è rappresentato dai costi sostenuti per i figli dalle famiglie italiane. Alcuni demografi e ricercatori della Banca d’Italia, ospitati dal prestigioso Neodemos on line, hanno pubblicato delle stime a partire dai dati sui consumi, segnalando una spesa media di 645 euro al mese per  figlio. Simulando, poi, di quanto dovrebbe migliorare il reddito affinché una famiglia mantenga inalterato il proprio livello di benessere dopo l’arrivo di un figlio, si ottiene un valore medio pari a 720 euro (510 per le famiglie povere e 763 per le altre). Tutto ciò ovviamente considerando i soli aspetti economici dell’inverno demografico. Aspetti che insieme al tormentone della precarietà e della crisi degli alloggi concorrono certamente – anche se non in modo esclusivo o prevalente – alla sfarinamento della riproduzione sociale.

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