L'intervista

“Quindici anni per salvare l'Italia dal collasso demografico”. Parla Rosina

Gianluca De Rosa

I dati dell'Istat certificano il crollo delle nascite e il professore di demografia della Cattolica avverte: "Aumentare la natalità è l'unico modo per salvare la capacità produttiva e il sistema di welfare del paese". E su Meloni: "Ha centrato il tema, ma sulle politiche ancora non si è visto nulla"

“I dati dell’Istat usciti giovedì descrivono una situazione ancora più grave di quella che ci si sarebbe potuti aspettare: se entro 15 anni non riusciamo ad attuare un’inversione di tendenza delle nascite, portando l’Italia a convergere con i dati di fecondità di paesi europei come Francia e Svezia, dobbiamo dire addio alla possibilità di contenere gli squilibri demografici e rassegnarci quindi a una progressiva decadenza del sistema produttivo e del sistema di welfare, non c’è immigrazione e innovazione tecnologica che tenga”. Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia all’università Cattolica e autore per Laterza del libro “Crisi demografica” è preoccupato. Gli ultimi numeri forniti dall’istituto nazionale di statistica vedono ancora crescere la decrescita della popolazione: gli italiani saranno 58,1 milioni nel 2030 e scenderanno addirittura a 45,8 nel 2080, mentre il tasso di fecondità, ovvero il numero medio di figli per donna, è fermo al 1,25, molto lontano da quel due che consentirebbe la completa sostituzione tra le generazioni. “Si sono accentuate – dice Rosina – le difficoltà del paese a mettersi in una prospettiva d’inversione di tendenza delle nascite. Il numero medio di figlia per donna aumenta, ma davvero troppo poco, dunque non è in grado di compensare la riduzione continua della popolazione in età per figli: insomma non è sufficiente a far tornare le nascite a salire”.

 

Come si arresta questa discesa? “Servirebbe – risponde il professore –che il numero medio di figli per donna aumenti stabilmente per essere più che compensativo della riduzione della popolazione in età da figli. In paesi come Francia e Svezia, che hanno messo in campo le migliori politiche, è a 1,8, da noi a 1,25, dovremmo cercare di raggiungerli. La popolazione non aumenterebbe, ma neppure gli squilibri, questo consentirebbe – attraverso un potenziamento qualitativo della produttività dei lavoratori grazie alla tecnologia e a un allargamento quantitativo, sfruttando l’immigrazione e la crescita dell’occupazione femminile – di mantenere in equilibrio il nostro sistema”.

Eppure l’attuale governo, almeno a parole, ha messo l’attenzione sul problema della denatalità. “Meloni – dice il professore – ha senz’altro centrato il tema, è un suo merito, ma fino ad adesso le politiche che fanno la differenza non si sono ancora viste. In Italia il numero medio di figli desiderati dalle giovani coppie è vicino a due, in linea con gli altri paesi europei, ma il tasso di fecondità non cresce: l’assenza di politiche per la natalità fa sì che anche chi i figli li desidera procrastini sempre in avanti il tempo del concepimento fino, a volte, a rinunciare, di fatto, a diventare genitore”. Cosa manca?  “Siamo indietro su tutto. E’ stato introdotto l’assegno unico universale, ma la parte universale e non di contrasto alla povertà, che comunica ai cittadini come un figlio non è solo un costo privato ma un valore sociale, è più bassa rispetto al resto d’Europa. Per quanto riguarda le politiche di conciliazione tra vita e tempo libero, lo scarso sviluppo di servizi per l’infanzia – gli asili nido coprono solo il 26 per cento della domanda contro l’oltre 50 di Svezia e Francia – e la mancata equiparazione tra congedo parentale di mamme e papà fanno sì che da noi le donne o lavorano o fanno figli. Risultato? Basso tasso di occupazione femminile e basso tasso di natalità”. Secondo Rosina non è poi solo questione di politiche per la famiglia. “Siamo indietro anche sul sostegno ai giovani: si esce tardi di casa perché non ci sono politiche abitative adeguate, abbiamo il maggior numero di neet d’Europa (ragazzi che non studiano e non lavorano ndr) perché le politiche attive del lavoro funzionano male. Su molte di queste cose il Pnrr è un enorme occasione che non bisogna sprecare”.

C’è chi dice che sia anche un questione culturale. “E’ un’affermazione senza fondamento empirico”, dice Rosina. “I giovani italiani hanno lo stesso desiderio rispetto ai coetanei europei di avere figli,  quelli che vanno all’estero fanno più figli degli altri. Questioni culturali ci sono senz’altro, ma non cambiano dall’Italia agli altri paesi europei, non c’è una specificità italiana. Oggi in tutta Europa fare un figlio è una libera scelta sempre meno scontata, proprio per questo chi la desidera va aiutato, per evitare che il rinvio si trasformi in una rinuncia e per dare un valore sociale alla natalità”.

Il rischio comunque è enorme ed è quello di un meccanismo perverso in grado, in tempi neanche poi così lunghi, di far collassare non solo il sistema previdenziale, ma la capacità produttiva e il sistema di welfare del paese. Spiega Rosina: “Nei prossimi 20 anni la popolazione anziana aumenterà: gli over 65 passeranno dal 14 a 19 milioni, questo richiederà maggiori risorse per le pensioni e la sanità, ma allo stesso tempo diminuirà di circa un terzo la platea di chi che queste risorse può produrle. Andando avanti con il tempo questa cosa, senza inversioni, continuerà ad accentuarsi. Così il sistema diventa insostenibile: genereremo meno ricchezza che sarà assorbita per lo più dalla popolazione anziana, lasciando meno risorse da investire per i giovani. Un circolo vizioso che chi può si sottrarrà facilmente all’enorme debito pubblico e dagli squilibri distributive delle risorse andando a lavorare in un altro paese”. Uno scenario inquietante. Perché finora non è stato fatto abbastanza? “Da un lato – dice il professore – per la poca lungimiranza della politica che guarda sempre e solo a alle prossime elezione, mentre le politiche demografiche, per loro natura, hanno bisogno di respiro generazionale. Dall’altro perché fino a poco tempo fa al centro della popolazione in età lavorativa c’erano delle generazioni molto consistenti, quelle nate all’epoca del baby boom e fino agli anni 60, questo ha fatto sì che nonostante limiti e contraddizioni del nostro modello sociale di sviluppo le cose reggessero. Adesso però il paese si accorge che la popolazione al centro della vita attiva sta diminuendo, la demografia inizia a mordere, non è più il futuro: se ne accorgono le imprese che vedono che manca la manodopera, se ne rendono conto le amministrazioni, lo sentiremo sempre di più, ma se non ci diamo una mossa rischia di essere troppo tardi, il declino sarà inarrestabile”.