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la storia

A ottant'anni dalla guerra, si cercano ancora le opere trafugate dai nazisti. Un caso 

Giulio Silvano

Collezionista per una vita, appassionato di guerra, Bruno Stefanini ha comprato armi, bombe e addirittura un carrarmato. Di oltre centomila pezzi, tra cui seimila dipinti a olio e ventimila opere su carta, si occupa ora la figlia Bettina

Il letto dove è morto Napoleone, il suo spazzolino da denti d’oro utilizzato a Waterloo, la scrivania su cui JFK firmò il trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari, il costume di Charlie Chaplin ne “Il grande dittatore”, un vestito di Sissi, la Rolls-Royce di Greta Garbo. Questi pezzi di storia erano tutti di proprietà di Bruno Stefanini, figlio di un operaio immigrato da Bergamo alla Svizzera. Personaggio schivo e dall’aria banalissima, Bruno Stefanini, è stato un self-made-man, che ha costruito un impero immobiliare comprando e rivendendo edifici e appartamenti nella sua Winterthur. Nato nel 1924, per tutta la vita Stefanini è stato un avido collezionista. Si parla di oltre centomila pezzi, tra cui seimila dipinti a olio e ventimila opere su carta. Appassionato di guerra, non solo aveva comprato armi, bombe e addirittura un carrarmato, ma anche le uniformi dei prigionieri del processo di Norimberga. Alla sua morte, nel 2018, una parte dei suoi acquisti era ancora incellofanata nei depositi delle case d’asta. Non era noto per prendersi cura degli oggetti, e nemmeno delle case che possedeva – i suoi quattro castelli alpini erano in rovina. A detta dei famigliari, gli piaceva comprare e possedere, ma senza poi occuparsene troppo. Ora a prendersi cura di queste montagne di oggetti c’è la figlia Bettina, che ha preso la guida della fondazione, creata nel 1980, dal nome altrettanto banale di Fondazione per l’Arte, la cultura e la storia. I primi passi sono stati la catalogazione, poi la consegna al governo svizzero di diverse bombe ancora esplosive. Poi Bettina ha deciso di creare una squadra indipendente di esperti che potessero valutare gli oggetti del padre per vedere se, tra le montagne di roba, ci fosse qualcosa portato via a famiglie ebree durante la Seconda guerra mondiale. Tra i dipinti ci sono pittori svizzeri come Augusto Giacometti, Felix Vallotton o Ferdinand Hodler, ma anche artisti amati da Adolf Hitler, come Arnold Böcklin e Carl Spitzweg, e in questi casi è comune risalire a storie di furti e acquisizioni illegali. Nel 2016 la Neue Galerie, il museo di arte tedesca e austriaca di New York, ha scoperto che un dipinto esposto di Karl Schmidt-Rottluff era stato portato via a una famiglia ebrea negli anni Trenta, l’ha restituito agli eredi dei proprietari originari e poi l’ha riacquistato a prezzo di mercato. L’anno scorso una natura morta di Lovis Corinth, esposta al museo di belle arti di Bruxelles, è stato consegnata ai nove bisnipoti di Gustav ed Emma Mayer, una coppia fuggita dalla Germania per via delle leggi razziali, costretta a lasciare lì il quadro. 

Nonostante siano passati quasi ottant’anni dalla fine della guerra, esiste ancora un numero incredibile di opere di cui non si conoscono i legittimi proprietari, collezionisti vittime dell’ingordigia di Hermann Göring, individui a cui l’organizzatissima unità di Alfred Rosenberg, nata per raccogliere opere nell’Europa occupata, ha portato via quadri, mobili e disegni. Il caso apre la questione – quanti degli oggetti e delle opere d’arte che ci sono in musei e, soprattutto, in abitazioni e collezioni private e listini delle case d’aste, sono stati rubati, portati via a famiglie finite a bruciare nei forni di Bergen-Belsen? L’operazione di Bettina Stefanini riempie un vuoto normativo, dato che in Svizzera, nonostante alcune pressioni da parte del Parlamento, non esistono degli organi governativi che lavorano su identificazioni e restituzioni. 

 

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