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Spazio okkupato

Le donne per Mussolini

Giacomo Papi

Durante gli anni del fascismo, furono gradualmente allontanate dagli studi e dal lavoro, considerato una distrazione dal ruolo sociale di madri. Tanto che i giornali del regime parlarono di "peste demografica", quando rilevarono che molte si trasferivano in città

Appena sceso a Milano al binario 20 della Stazione centrale, proprio di fianco al 21 da cui i treni partivano per Auschwitz, ho alzato gli occhi sul grande mosaico a mezzaluna che sormonta tre porte di legno e vetro, e mi è apparso Benito Mussolini che avanzava in orbace e fez, circondato da una folla di donne adoranti. La visione si è materializzata dal nulla, come una di quelle tracce improvvise del passato che la fretta rende invisibili, ma che rivelano quanto la storia sia ancora impressa nei luoghi che abitiamo. Il presente è un paesaggio costruito soprattutto dai morti, che agiscono ancora e sussurrano come fantasmi, cercando di indirizzare il futuro. Per questo vorrei contribuire al dibattito sul legame tra femminismo ed eventuale nomina a presidente del Consiglio di Giorgia Meloni, ricordando come il fascismo considerò e trattò le donne. E questo non perché Meloni sia fascista e nemmeno perché lo sia il programma elettorale di Fratelli d’Italia, ma perché può essere utile misurare in che misura l’enfasi del programma e della leader su maternità, famiglia e interesse nazionale, aborto e lotta alla prostituzione, siano coerenti con quella concezione e con quelle politiche.

La prima cosa da chiarire è che sulla questione femminile Mussolini seguì una strategia avvolgente e ondivaga, e che per certi versi il Ventennio fu un periodo di grande emancipazione per le donne italiane. Soltanto per quelle ricche, però. Per quelle povere l’alternativa fu tra essere madri o puttane, donne buone o buone donne, bestiame da riproduzione o da monta, sempre e comunque al servizio dei maschi e della patria, loro diretta emanazione. Ma tra le “vere madri italiane” glorificate da Mussolini e gli “orinatoi di carne” (l’espressione è attribuita a Giovanni Papini), la modernità insinuava un terzo tipo di donna, numericamente minoritario ma dominante nel cinema, radio e riviste, che era libera, disinibita ed elegante, perfino perversa. La “donna di tipo tre”, descritta nel 1929 dallo scrittore Umberto Notari, “nuova creatura di sesso femminile, frutto diretto della macchina”. Era la dicotomia tra Rachele Guidi, la moglie paesana del duce, e Margherita Sarfatti, l’amante intellettuale ebrea. Anche per questo, almeno all’inizio, Mussolini fu aperto: nel 1925 per esempio fece approvare una legge che concedeva il voto alle donne per le amministrative (ma sfortunatamente dal 1926 abolì le elezioni amministrative, insieme a tutte le altre). 

Quello che ebbe chiaro da subito fu che il lavoro avrebbe distratto le donne italiane dal dovere di fare figli e sarebbe stato uno strumento della loro liberazione. Nel 1923 si proibì alle donne la direzione di scuole medie e convitti e nel 1926 l’insegnamento di filosofia, letteratura, storia ed economia alle superiori. La cornice ideologica era stata chiarita alla Camera nel discorso dell’Ascensione del 26 maggio 1927: “Bisogna quindi vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia”. Come avrebbe ribadito nel 1934 sul Popolo d’Italia in un articolo intitolato “Macchina e donna”, il lavoro “ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta un’indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto”. Per fare grande la patria, cioè, le donne dovevano stare in casa a produrre italiani. 

I giornali di regime iniziarono a parlare di “peste demografica” e a lanciare allarmi sul dilagare della “famigliuola”, benché nel 1936 la famiglia media fosse grande come nel 1901. Invece accadeva, e il fascismo rilevava, che dal 1921 al 1936 si spostarono dalle campagne in città 326 mila donne contro 228 mila uomini. Andavano a servizio o in fabbrica dove lavoravano e guadagnavano di più, e dove di domenica potevano perfino divertirsi o andare al cinematografo. Il settimanale illustrato La Piccola italiana trabocca di storie di bambine sciocchine che smaniano per la città e finiscono a battere in strada, terrorizzando il regime che non poteva tollerare l’esercizio fuori dai bordelli. Nel Codice Rocco del 1930 l’aborto o “il contagio di sifilide o blenorragia” sono collocati nella nuova categoria dei “delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”, in quanto tali politici. Per preservare la razza e tutelare la salute dei maschi, il regime inasprì le pene per le “veneri vaganti”, costringendole nelle case di tolleranza dove erano visitate da medici chiamati “tubisti”. Nel Casellario politico centrale del Ventennio fascista sono registrate almeno 130 prostitute, arrestate o spedite in manicomio per avere esercitato fuori dalle case o insultato Mussolini. Come Libera Hriaz, una triestina ricoverata in un sifilicomio a Bologna che fu mandata al confino – come ha ricostruito lo studioso Matteo Dalena – per avere dedicato al Duce “rutti e scorregge”. Le sia lieve la terra.

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