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Ispirazioni da Netflix

Non si comprende la storia se la si riduce al banale conflitto tra buoni e cattivi

Giovanni Belardelli

Il semplice ribaltamento di prospettiva tentato dalla critical race theory non ci conduce affatto a una comprensione storica completa

A chi ha visto il film “Don’t look up!” difficilmente sarà sfuggita una battuta, degna di Donald Trump, pronunciata dal colonnello incaricato di una missione suicida per salvare la Terra: “Saluto – dice costui dopo essere stato lanciato nello spazio – tutti e due i tipi di indiani. Quelli con gli elefanti e quelli con arco e frecce. Perché non avete mai unito le forze? Sarebbe stato fantastico”.  Benché messe in bocca a un personaggio volutamente grottesco, queste parole saranno risultate sgradevoli per i nativi americani “con arco e frecce”, ma anche per quel mondo accademico statunitense in cui prospera da tempo la critical race theory, cioè la reinterpretazione della storia americana che denuncia il pregiudizio razziale come fondamento dell’esistenza stessa degli Stati Uniti e condanna qualunque tipo di stereotipizzazione etnica. Quella battuta sembra indicare come Netflix, la piattaforma che offre il film in streaming, proprio per il fatto di dover ottenere il gradimento (e gli abbonamenti) di un pubblico ben più ampio di quanti vivono nei campus americani o lavorano nelle redazioni dei giornali liberal, sia in grado di opporre una qualche resistenza ai dettami del politicamente corretto. Lo confermerebbe il fatto che il film “The Closer” di Dave Chapelle, accusato d’essere transfobico, non è stato eliminato dalla programmazione di Netflix. E lo conferma pure la recente serie “The Chair” (La direttrice), che racconta, con molta prudenza ma senza indulgere ai dogmi della cancel culture, la vicenda di un professore messo alla gogna dai suoi studenti. 

Ma torniamo agli indiani e alla storia americana. Anzi alle sue origini, cioè alla festa di Thanksgiving, che ogni anno rinnova il ricordo di un incontro tra coloni bianchi e nativi fondato sulla pacifica collaborazione. Secondo il racconto tradizionale, che ancora oggi circola largamente negli Stati Uniti e ispira un’infinità di libri per l’infanzia, la festa rievoca il ringraziamento che nel 1621 i coloni arrivati l’anno precedente con il Mayflower tributarono a Dio in occasione del primo raccolto; ma celebra anche l’amicizia tra loro e la vicina tribù indiana Wampanoag che li aveva aiutati in quei mesi. In realtà, come alcuni storici hanno documentato negli ultimi anni, questo racconto è per una buona parte inventato e le cose andarono diversamente, sia al momento dell’iniziale incontro tra coloni e nativi, sia e soprattutto negli anni seguenti. I coloni infatti cercarono con successo, usando minacce, imbrogli e violenza, di impadronirsi delle terre degli indiani. Usarono quando necessario le leggi inglesi per condurli in prigione o anche condannarli a morte.  Negli anni 70 di quel secolo si verificò un conflitto aperto – la cosiddetta King Philip’s War – che terminò con l’annientamento degli indigeni, il cui capo ebbe la testa mozzata e issata su un palo, mentre il corpo smembrato venne lasciato marcire in una gabbia sospesa sopra una strada perché tutti vedessero. 

La storia delle origini di Thanksgiving e dei rapporti iniziali tra i Pilgrim Fathers e i nativi americani è stata dunque sostanzialmente riscritta. E questo ristabilimento della verità dei fatti è certo una cosa positiva, un atto di giustizia dovuto ai nativi americani. Con un problema però, che è questo. Il nuovo racconto si limita in sostanza a dire che i buoni e pii pellegrini arrivati col Mayflower non erano né buoni né pii. Erano violenti e sopraffattori. Questo ribaltamento di giudizio sembra avvicinarsi alla realtà di ciò che avvenne, ma a ben vedere non ci conduce affatto alla comprensione storica. Spiegare i fatti con l’idea che i “buoni” (quei devoti puritani che portarono oltreoceano l’idea di democrazia) erano in realtà “cattivi”, corrisponde molto al nuovo clima degli studi americani ispirati alla critical race theory, ma ci fa capire poco. In fondo non è che una banale tautologia – uomini cattivi fecero cose cattive – che si può applicare con eguale inutilità ad ogni fatto storico che implichi violenza, sopraffazione, morte.

In realtà i Pilgrim Fathers erano davvero pii, ovviamente come potevano esserlo a quell’epoca dei devoti puritani. Pensavano dunque che il demonio fosse una presenza fisica reale: poteva provocare tempeste e terremoti, poteva incarnarsi in piante, animali ed esseri umani. Quei puritani giunti oltreoceano ritenevano anzi che Satana avesse stabilito il suo dominio proprio nel Nuovo Mondo, ben prima dell’arrivo degli europei, e che le popolazioni indigene fossero a lui legate e rappresentassero in sostanza le sue truppe. La colonizzazione di quelle nuove terre a danno dei nativi, lo stesso sterminio di questi ultimi, diventavano il fulcro di una decisiva battaglia religiosa volta a sconfiggere il diavolo. Questo genere di considerazioni (che traggo da un saggio abbastanza recente scritto da uno storico americano-equadoregno, Jorge Cañizares-Esguerra, The Devil in the New World) non esauriscono probabilmente la questione. La cosa importante però è che non puntano a dirci se i coloni fossero buoni o cattivi (saranno stati un po’ l’una cosa e un po’ l’altra come avviene in ogni tempo e sotto ogni cielo), ma – restituendoli alla loro epoca e alle loro idee, passioni, paure  – provano a farci capire perché certe cose sono accadute.

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