Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

Il Foglio del Weekend

Fascismo, vaccini, gender. S'avanza l'opinionista che parla, straparla ma non sa

Michele Masneri e Andrea Minuz

Dalla legge Zan al pol. corr. fino alla pandemia: su temi complessi, “tecnici” e scivolosi si esprimono quelli che fanno tutt’altro. Il risultato di quindici anni di social, in cui tutti scrivono e nessuno legge

Meno ne so, più devo dirlo a tutti. È la nuova regola trasformata in legge da quindici anni di social. Ogni dibattito è ormai incattivito, isterico, rabbioso. Tutto si polarizza su posizioni intransigenti: Cancel culture, vaccini, fascismo, patriarcato due punto zero, global warming, elezioni comunali, non importa cosa. L’importante è schierarsi, mettere la bandierina, cavalcare l’onda. Sembra quindi del tutto normale che su temi anche molto complessi, “tecnici” e scivolosi, si esprimano soprattutto quelli che fanno un altro lavoro. Lo Zan (ormai alle spalle, “affossato”) è un caso da manuale. Nessuno lo ha letto, tutti ne hanno valutato possibili tremende conseguenze o, al contrario, lo hanno esaltato come unico baluardo di civiltà. D’altra parte non c’è più tema, dibattito politico, problema sociale su cui i nostri attori, cantanti, influencer, virologi, presentatori non sentano l’obbligo di schierarsi, di prendere una posizione quasi sempre perentoria, assertiva, inequivocabile. La tentazione dell’engagement è irresistibile. E il dubbio, quantomeno una sana e consapevole incompetenza in materia non si portano più.

 

Michele Masneri: Se gli italiani passano sempre più tempo sui social (il 39 per cento dice di starci di più che in passato, secondo una ricerca di BlogMeter), nessuno crede più a niente (il 75 per cento non si fida di quello che legge sui medesimi social secondo Demopolis). Insomma si sta verificando quello che già succedeva ai libri: tutti scrivono, nessuno legge, nel peculiare mercato italiano. In più ci si mette la moltiplicazione dei talk show, che richiede opinioni e posizioni sempre nuove e adeguate ai tempi che cambiano.

Andrea Minuz: È un mondo fatto su misura per l’opinionista improprio, sbagliato, fuori ruolo, ma schieratissimo. Per l’attivista social che interviene a ruota libera su tutto, dalle pensioni al climate change. È il modello Tomaso Montanari: rettore, storico dell’arte con cattedra, ma soprattutto gran cacciatore di liberisti in tv e su Twitter. Viene sempre da chiedersi dove trovino il tempo.

MM: Un personaggio-chiave di questi mesi è Antonella Viola: il volto umano della virologia italiana, l’Enza Sampò dei medici televisivi, è sopravvissuta come ospite fissa al cambio di stagione, quando i virologi non si portano quasi più e si è tornati a parlare di pensioni, Quirinale, Ddl Zan. La Viola, elegante, pacata, mai sopra le righe, rappresenta il cambio di passo e il clamoroso spirito di adattamento dell’ospite fisso. Vestita come Serena Draghi, Viola si è espressa anche sulla madre di tutte le questioni. “L’esito del ddl Zan? Stupita come scienziata”, ha detto a “Otto e Mezzo” e ha ammesso di guardare “con profondo dolore all’applauso del Senato, una sede dove gli interessi di tutti i cittadini dovrebbero essere tutelati”. E poi: “Sono sorpresa come scienziata. Quello che non sanno le persone che hanno detto no a una legge così importante è che circa 1 persona su 100 nasce con delle differenze o dei disordini nello sviluppo sessuale a causa di alterazioni genetiche, ormonali o malformazione degli organi sessuali. In Italia le persone con i capelli rossi sono 1 su 170-180 anni cioè sono più frequenti le alterazioni legate al sesso che non quelle con i capelli rossi. Ecco, queste persone non sono tutelate perché sono diverse, la legge li avrebbe tutelati e avrebbe punito l’istigazione per quello che sono”.

AM: Vabbè ma qui casomai, è complicato trovare qualcuno che non sia intervenuto. Nel bla bla bla sullo Zan c’è finito tutto il nostro showbiz. Mancavano solo i “Me contro te”, gli youtuber miliardari, guru dei tutorial sugli “slime” che qui vanno meglio della Disney, interpellati magari sul “percorso di transizione dei bambini”, che se non altro sono il loro target. Del resto, ci siamo abituati a tutto. Un Montesano, un Red Ronnie, un Pippo Franco sul green-pass, o una Monica Guerritore a “Otto e mezzo” sulle politiche fiscali del governo Draghi (la compagnia di giro di Lilli Gruber ha ormai dentro mezzo cinema italiano, c’era un periodo in cui si vedeva sempre Anna Foglietta, posseduta dal personaggio di Nilde Jotti, a ruota libera su tutto). E Paolo Brosio che dopo aver raccontato Tangentopoli dal famoso marciapiede, dopo essersi convertito “sentendo le voci” a Medjugorje, ora si improvvisa virologo e no vax. Oppure: come dimenticare, dopo le elezioni del 2013, il fronte degli artisti uniti che chiedevano a gran voce un governo Pd-M5s? “Non sarebbe meglio trovare un compromesso transitorio solo per traghettare il paese a nuove elezioni, magari fra un anno?” diceva Fiorella Mannoia, illustrando, come in un dramma didattico brechtiano, la sua linea di condotta in giro per talk-show e ospitate televisive varie. Immagina, per dire, Alberto Sordi che si esprime sul piano Ina-casa o sull’apertura di Fanfani ai socialisti. Del resto, casomai queste cose gliele avessimo chieste, non ci avrebbe mai risposto. “Ma che c’entra la mia professione con la politica?” avrebbe detto, come usava sempre in questi casi, magari replicando alle domande di una Lilli Gruber o Myrta Merlino sulle insidie dello Zan. Però che gran film ci avrebbe fatto su!

MM: “Scusi, lei è favorevole o contrario allo Zan?”.

AM: Ecco. Il titolo c’era già, vedi? Bastava aggiornare l’Italia divisa dalla legge sul divorzio a quella ossessionata dal “Gender”. Lì Sordi era un ricco commerciante di stoffe pregiate, con moglie e carovana di amanti al seguito, ostile al divorzio per motivi religiosi, fiero sostenitore della famiglia tradizionale, ma strenuo difensore della domenica solitaria, da passare nel suo yacht, al largo del Circeo, col fido domestico inglese e gay, lontano da figli, moglie, amanti petulanti. Eccolo ora alle prese con tutte le sfumature dell’arcobaleno Lgbt, l’intersezionalità, le minoranze, le identità non-binarie. Ma infondo sempre preda dei soliti “fantasmi italiani”.

MM: La discussione su “l’affossamento dello Zan” (già a partire dal mono-sostantivo usato; nessuno usa alternative tipo bocciatura, rinvio, cancellazione. Sempre e solo affossamento) andrà in futuro studiata perché riunisce in effetti molti caratteri tipici del dibattito culturale italiano.

AM: È una formula che mi ipnotizza: “L’affossamento dello Zan” come “il gran rifiuto” o “lo schiaffo di Anagni”. Già epica, ricca di influenze letterarie, perfetta per i nostri libri di storia. Sembra una disfatta militare, una catastrofe naturale o il titolo di una canzone di Ivano Fossati (o di Guzzanti che fa Venditti, dopo “L’esondazione dell’Aniene”, “L’affossamento dello Zan”).

MM: C’è dentro innanzitutto il crocianesimo idealista, l’idea di spaccare sempre il capello in quattro senza mai centrare il punto principale. Non abbiamo una legge che tutela dei diritti che sarebbe carino difendere? No: subito ecco discussioni infinite su tecnicismi e tatticismi. Tra “House of Cards” e “Un Posto al Sole”, il paese di allenatori di calcio è diventato per l’occasione paese di costituzionalisti e penalisti. E quirinalisti: “ma è la partita per il Quirinale”, ti dicono infatti con tono comprensivo (ah, povero ingenuo! che naïf!) quando dici che adesso se vai in giro mano nella mano l’omofobo sarà più ringalluzzito a sprangarti. E ti spiegano subito tutte le tecniche e i candidati e le votazioni, appassionandosi immediatamente alla questione che sta a cuore a tutti: chi avrà votato come. E soprattutto: cambiamo la legge elettorale, oh yeah! Lì tutti espertissimi, eccitatissimi. Gli italiani non sono solo omofobi. Sono soprattutto politicosessuali.

AM: È anche un po’ la “sindrome Chernobyl”. Altra nostra caratteristica intramontabile. La “sindrome Chernobyl” è ovviamente spiegata benissimo dalla serie. Nelle prime puntate, mentre brucia il reattore, vediamo queste riunioni del Politburo completamente scollate dalla realtà della catastrofe. Sembrano tutti più interessati al “gioco delle correnti”, ai “franchi tiratori”, a chi potrà approfittare politicamente della tragedia. C’è tutto un non-detto, un’aria da regolamento di conti. La tragedia passa in secondo piano. Sembra più importante rispettare la prassi, la gerarchia delle decisioni. È il trionfo della mostruosa elefantiasi ministeriale fatta di apparati di apparatčik. Anche noi siamo così: gusto sovietico per l’amministrazione pubblica, retroscenismo compulsivo, amore per la tattica, la teoria, le “correnti”, disprezzo per la realtà e il dato empirico. E così questo Zan alla fine era diventato tutto una ripicca, un sottotesto della politica italiana, un fuoco incrociato Renzi-Letta-Prodi, senza dimenticare ovviamente “l’ombra di D’Alema”.

MM: Ma presto avremo una legge elettorale bellissima, vuoi mettere!

AM: Non vedo l’ora! Però, lo ammetto, non ho provato mai troppo eccitazione per lo Zan durante tutto questo tempo. Un po’ perché non ho il gusto della corrida, un po’ perché le leggi ideate, pensate e scritte sulla scia dell’indignazione e dei fatti di cronaca mi suonano sempre sospette e insidiose. Mi affascinava invece tantissimo la posizione di quelli che ti spiegavano che “il testo è scritto male”. Anche perché l’avrei voluta fare mia. Non sei né pro, né contro, sei d’accordo nella sostanza, ma non nella forma: la versione giuridica di “ho molti amici gay”.  Per carità, magari è anche scritto male. Del resto l’italiano giurisprudenziale non è proprio fatto per la “Gender Theory”. Ma (mi domandavo) come facevano a dirlo così in tanti? Credevo fosse un commento molto tecnico (da giurista, costituzionalista, filosofo del diritto). Macché. Era diventato uno dei più gettonati sui social. Non avevo capito che era alla portata di tutti, specie di chi il testo non l’aveva letto (l’ottanta per cento di quelli che si sono appassionato allo Zan, equamente diviso su entrambi i fronti). Ecco però una nuova, intrigante disciplina: “L’estetica penale”. Forse uno dei frutti di tutti quei Dpcm letti in bozza su Twitter durante il lockdown.

MM: Magari si può ripresentare in inglese, o come podcast.

AM: Come podcast passa sicuro.

MM: Curiosa infatti la richiesta di una norma semplice e snella nel Paese del barocco burocratico e dell’espressionismo delle partecipazioni statali. Nel paese della “prego riscontrare l’allegato della mail in oggetto”, degli annunci ferroviari che in non meno di otto subordinate ti annunciano che sei nel vagone del silenzio, o che devi mostrare “il titolo di viaggio” al posto del biglietto. Il titolo di viaggio secondo me è molto ambiguo come definizione (più dell’identità di genere). Chissà se l’hanno introdotto col voto segreto. Però sulla Zan tutti richiedevano invece rigore e snellezza. E anche una certa estetica giuridica: ma come, mi stupisco di te, una persona così elegante, con quei calzini a righe perfetti, e invece vorresti una legge del genere. Che facciamo stasera, guardiamo una serie o leggiamo lo Zan? No, lo Zan no, è scritto così male!

AM: Siamo pur sempre il paese con la Costituzione più bella del mondo. Ce lo vedi il Ddl letto da Benigni in prima serata? No. Date un editor a questo Zan, poi ne riparliamo.

MM: Del resto, in un paese che ha scambiato la politica per lo show business, è normale scambiare le leggi per dei testi di fiction. Dunque il “Milleproroghe” è lo Zibaldone di Leopardi. I “Promessi sposi” saranno la Finanziaria. Ma sullo Zan poi c’è un altro magnifico carattere nazionale che viene fuori: il non ricordarsi nulla, neanche del giorno prima. Qualche giorno fa ho visto un magnifico articolo in cui Francesco Storace, quello di “‘a froci”, dà dell’omofobo a Enrico Letta, perché ha “affossato lo Zan”. Notevole, no?

AM: Ma cosa bisognerà dire oggi? Dì qualcosa di “intersezionale”!

MM: Binario triste e solitario!

MM: C’è da dire che il parlare senza sapere mai un cazzo non è solo relativo allo Zan, siamo del resto il paese che non riesce a tollerare che “affaire” sia femminile, e che per far fino scrive “agée” per dire vecchio, e già che c’è ci mette una “e” in più, che nonostante la cancel culture non riesce mai a scrivere “sauté di cozze” giusto, e però sullo Zan in particolare è venuto fuori proprio l’orgoglio di non sapere un cazzo e proprio per questo ambire a dire la propria (non so un cazzo ma darò la vita per poter dire la mia sull’argomento). Commentare sempre tutto: i migliori cervelli del paese proprio non riescono a scrivere “orientamento sessuale”, preferendo invece “scelta”, o “inclinazioni” (siamo nel 1978, che meraviglia). E poi risate grasse per termini ignorati, sberleffi, ah, l’identità di genere, un fou rire! Senza prendersi neanche dieci minuti per controllare magari su Wikipedia. E  però, lo si ripete per l’ennesima volta: se si scrivesse così di calcio, di moda, di automobili? Ah, questo Abs, ahaha! Ah, Miuccia Prasa? Praga? E commentare professionalmente il calcio non distinguendo calcio d’angolo da rigore? Vedo già le proteste. Altro che No vax.

AM: Ma c’è anche un altro problema. L’agenda delle battaglie civili è andata in overload. Tutto insieme. Tutto subito. Non gli si sta dietro. Non si riesce a tenere il passo. Come con le serie tv. Guarda che anche essere un maschio, bianco, etero, privilegiato, ex Ztl, con contratto a tempo indeterminato, non è mica facile. Sei praticamente spacciato: il razzismo è radicato nelle istituzioni, nel sistema amministrativo, nella scrittura delle leggi. Il patriarcato ti scorre nel sangue. Le gerarchie di genere scaturiscono dalla lingua che usi ogni giorno. L’omofobia, la transfobia, anche loro riflessi automatici di cui forse non ti rendo conto ma ci sono eccome. Come premessa teorica per un mondo più “inclusivo” è abbastanza angosciante. Tutto pare reggersi su un ragionamento alla Davigo: fino a prova contraria, sono colpevole. Troppo massimalismo, troppo radicalismo, troppo Nietzsche, Derrida, Rorty, Foucault. E troppa gente disoccupata, con molto tempo libero e un Phd in “Humanities” varie da spendersi nelle risse sui social. Quando si analizzano questi tempi rabbiosi, il peso della frustrazione da disoccupazione intellettuale mi pare ancora sottovalutato.

MM: Il prossimo Ddl andrà in onda in forma ridotta per venire incontro alle vostre capacità mentali (cit.). Oppure: rinviamo tutto al 2070, come fanno i grandi della terra… Ma forse basterebbe andare a Chiasso e studiarsi un po’ di gender theory che alligna da circa quarant’anni nei programmi universitari esteri. Invece qui si sa che bisogna sempre reinventare la ruota. A noi non la si fa! Bisogna criticarla la gender theory! Non accettarla supinamente! È chiaro poi che il dibattito infinito è il vero business model del paese. Questo sulla cancel culture terrà in vita gli intellettuali per i prossimi vent’anni. La dittatura del politicamente corretto è chiaramente per la destra quello che Berlusconi è stato per la sinistra. È qui! È tra noi! Bisogna scendere in piazza subito. Verranno a prenderci casa per casa. Non si può dire più niente, detto da chi va in televisione tutte le sere e finalmente pubblica libri ovviamente “contro”, trovando finalmente un filone, un business model! Carriere rinate! Depressioni finite! Conti correnti risanati! La dittatura del politicamente corretto è meglio del Pnrr, del bonus facciate, è meglio della Bacchelli.

AM: Sarò démodé, ma più che dalla cancel culture, mi sento minacciato da Landini che a San Giovanni illustra alla folla in festa le “terribili conseguenze dell’ideologia della proprietà privata”. Adda torna’ Proudhon! Altro che canone occidentale, asterisco e identità di genere.

MM: Il problema è sempre il cronotipo, come dice il mio amico Luca: l’illusione, siccome tutti leggiamo in inglese (con sottotitoli) e abbiamo fatto il militare su Twitter, d’essere tutti sullo stesso fuso orario, mentre le sensibilità e i gradi di civilizzazione rimangono diversissimi. Così il discorso sui diritti e l’identità di genere è piombato dalla solita America amara su un paese impreparato e che sta ancora lì su Pasolini sì o Pasolini no, aborto sì o aborto no, dire frocio si può o no? Avevamo appena accettato i parrucchieri gay del “Bello delle donne”, che ti capita tra capo e collo l’intersezionalità. E pure tutto il dibattito transgender è arrivato nel giro di una notte, nel paese che è rimasto agli anni Settanta. Del resto il prodotto più di successo del momento, i Maneskin, sono un remake di puri Seventies, tra Iggy Pop e i Ramones, un prodotto dunque “in stile”, anticato, che viene percepito come perfettamente contemporaneo, per l’Italia. Siamo, diciamo, al 1975. E quindi prepariamoci alla sbornia sugli anniversari pasoliniani dei prossimi mesi. Già hanno iniziato: Pasolini sì, che l’avrebbe bocciato, lo Zan. Non se ne esce.

AM: Lo dico sempre ai miei studenti. Occhio che quando leggete le pagine di Walter Benjamin sugli choc percettivi della metropoli e le radicali trasformazioni dell’esperienza travolta dalla velocità della modernità, quello aveva in mente il traffico, le luci, il ritmo urbano di Parigi e Berlino. Magari pensava a New York. Ma a Roma negli anni Trenta c’erano le pecore.

MM: E oggi i cinghiali.

AM: Appunto.

MM: Però allora sfruttiamolo questo vintage! Facciamo delle scelte di campo, anche con un occhio al real estate e al turismo. Leviamo di mezzo i diritti, torniamo all’omosessualità vintage, ripristiniamo Monte Caprino, introduciamo nuovi parchi, anche quelli spontanei cresciuti nell’èra Raggi, togliamo le inutili ciclabili e mettiamo dei luoghi di battuage a chilometro zero, richiamando così gay vintage da tutto il mondo. Come uno va in Olanda per i diritti civili e per la Borsa vantaggiosa e le bici, si verrà in Italia per quel gusto #no cancel culture.

AM: “Hollywood/Babilonia” sul Tevere.

MM: Già del resto omosessuali con vasto potere d’acquisto, da Gore Vidal in giù, hanno sempre scelto Roma non solo per i monumenti, ma perché una certa libertà d’azione e perché le marchette costavano poco. Anche una Cinecittà #metoo-free potrebbe essere messa a sistema, con registi e produttori palpeggiatori che lasciano la moralista Hollywood con le sue assurde richieste (un nero, un gay, un disabile) e trasferiscono la residenza in Italia. Paradiso fiscale anti pol. corr.

AM: Però ci vorrebbe una nuova “legge Andreotti”, come quella del ‘49. Un rilancio di Cinecittà nel segno del “politicamente scorretto”.

MM: Uno scudo penale anti politically correct! A patto di far rientrare cervelli e capitali. Sento che qui si potrebbe raggiungere una vasta maggioranza, da Quirinale al primo scrutinio. Ma forse così si perderebbero tutte le discussioni, e lo spettacolo.

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