il foglio salute

Ansie e paure quando i social network vanno in tilt

Eva Massari

Lunedì scorso per ben sette ore Facebook, Instagram e Whatsapp sono andati in down. Tutti, o quasi, si sono trasferiti su Twitter. Colpa della Fomo, la paura di restare tagliati fuori. Ma per molti è stata l’occasione per riscoprire il piacere della vita reale

Lo scorso lunedì, per circa sette ore, Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger sono crollati a causa, pare, di un errore nella configurazione dei server di Facebook. Questa caduta dei social network ha riguardato il mondo intero e si è trattato del disservizio più grande mai registrato dalla famiglia di Mark Zuckerberg; in Italia erano circa le cinque e mezza del pomeriggio quando si è cominciato a osservare come i feed non si aggiornassero, i messaggi mandati nelle chat non venissero letti e anzi, ancor prima inviati, e come fosse impossibile pubblicare aggiornamenti di stato.


Viene facile pensare che le prime azioni compiute da tutti abbiano riguardato, in ordine sparso, il controllo della connessione, il riavvio di smartphone, tablet e pc, il ripristino delle impostazioni e la conseguente, inevitabile, ricerca di informazioni in rete su eventuali malfunzionamenti dei social alla ricerca di notizie confortevoli sul fatto che il danno fosse globale, e non soggettivo, perché tutti tagliati fuori dal mondo va bene, ma va un po’ meno bene se si ha la percezione di essere gli unici a non sapere in tempo reale cosa accade nel virtuale. Su Twitter, che è l’unico grande social che non appartiene all’impresa Facebook Inc., gli hashtag #FacebookDown, #InstagramDown e #WhatsAppDown sono diventati subito trend topic, ed è su quella piattaforma che gli utenti che hanno un profilo (sarebbe interessante sapere quante nuove persone abbiano creato un account proprio quella sera) si sono scambiati informazioni, spesso con toni molto ironici, e hanno cercato notizie sull’origine del problema. Si rileva anche che siano state riesumate pratiche che sembrano appartenere all’età della pietra per le nuove generazioni, ovvero l’utilizzo di sms e addirittura di telefonate. La rivoluzione, anche se durata poche ore, è stata forse l’utilizzo della voce per comunicare in tempo reale, e non in un botta e risposta di messaggi vocali.


Si potrebbe sorridere pensando a queste situazioni, ma i social network sono entrati nelle vite di molti italiani – riferendosi ai vari sondaggi si stima siano tra i 43 e i 45 milioni – e anche se non tutti, e questo va sottolineato, sono utenti attivi, da anni ormai si parla di ansia sociale generata dalla dipendenza dai social network. La Fomo, acronimo di fear of missing out, ovvero la paura di essere tagliati fuori, pare essere una delle malattie del secolo, e coinvolgere milioni di persone, con i ragazzi come sempre più a rischio. E’ stato lo scienziato sociale Andrew Przybylski dell’università di Oxford il primo a parlare di Fomo in relazione ai social, insieme a ricercatori dell’Università della California, di Rochester e di Essex. Va da sé che la Fomo non è in sé una patologia, ma che serva a riconoscere dei comportamenti tipici di relazione ai social network; controllare lo smartphone in continuazione, andare a caccia di like o di cuori, essere spinti a mostrare sempre il meglio di sé anche laddove si snaturi completamente il proprio modo di essere sono atteggiamenti dei quali si sente parlare molto, e da molti anni. Attenzione a non cadere nel tranello di definire ognuna di queste azioni come patologica – ci sono gli esperti per questo –, ma quel che è certo è che c’è un progressivo staccamento, quanto dannoso lo vedremo nei prossimi anni, tra i sistemi di socializzazione dei nativi digitali e quelli delle generazioni passate. Durante il social down molti si sono sorpresi di aver dedicato del tempo alla famiglia, alla lettura, alla visione di un film o a una chiacchierata al telefono, e hanno vissuto queste esperienze, comunicate ovviamente via social, come qualcosa di molto lontano dalle loro abitudini ma che, tutto sommato, non è stato così sgradevole. E si badi bene che non si tratta solo di giovani, ma anche di insospettabili adulti per i quali il web è diventata una casa, qualunque cosa significhi avere una casa che esiste solo nel virtuale. 

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