Con 250 milioni di giocatori in tutto il mondo, Fortnite è uno dei videogiochi più giocati del mondo. E uno dei più immersivi: un terzo dei giocatori vi passa oltre 11 ore settimanali. Lo sanno bene i genitori di figli dagli otto anni in su – anche se il gioco sarebbe sconsigliato ai minori di 12 anni. Malgrado l’assenza di sangue e l’estetica spesso caricaturale, la principale modalità di gioco è una “battle royale” per la sopravvivenza in un mondo post-apocalittico, metafora incisiva del nostro mondo iper concorrenziale. I dilemmi dei genitori sono gli stessi dai tempi di Mortal Kombat e Doom: tutta questa violenza virtuale non avrà qualche effetto sul comportamento reale? Ma nell’ultimo trentennio il confine tra virtuale e reale si è ancora assottigliato: primo perché giochi come Fortnite permettono di spendere soldi reali nel mondo virtuale, per comprare accessori e skin, e secondo perché la modalità multigiocatore include una chat attraverso la quale l’utente viene catapultato in un ampio e incontrollato spazio di socializzazione. Nel frattempo, come ha raccontato l’Economist della settimana scorsa, il giro degli e-sport è diventato miliardario e si candida a sostituire gli sport “reali”: qualche gamer ci guadagna, proprio come uno sportivo di livello, e milioni di altri sperano di farlo. I videogiochi non sono più soltanto un divertimento ma “qualcosa a metà tra uno sport e una rete sociale”.
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