Una scena di “Brutti, sporchi e cattivi”, film del 1976 diretto da Ettore Scola con Nino Manfredi (Wikipedia)

La rivincita delle zie

Simonetta Sciandivasci

La famiglia è l’unica cosa che ci è concessa in questa fase 2. I parenti non ti salvano, ma alla fine è sempre da loro che si torna

Non c’è motivo di credere che ne usciremo migliori. Lo ha scritto Natalia Aspesi, scusandosi del cattivo umore, e figurarsi se a qualcuno è venuto d’insolentirsi, opporsi, replicare. Grazie al cielo. Siamo stanchi, infiacchiti, disorientati, incerti, più poveri e, prima d’ogni cosa, escoriati dalle relazioni familiari, cioè le relazioni fatali, le uniche consentite dal governo nella fase uno e, gravità della gravosità, anche nella fase 2, quella della transizione e del libero arbitrio, in sostanza la fase detenuto in attesa di giudizio.

 

Dal 4 maggio potrete far visita ai vostri congiunti, ha detto Giuseppe Conte in diretta tv, e streaming, e pianeta, il giorno in cui lo aspettavamo tutti in salotto, ben vestiti, pronti alla vidimazione delle nuove (cioè vecchie) libertà e subito traditi, rifilati per altre settimane a vivere in un Verga, un Donna Reed Show, un Amleto, un Parenti Serpenti. Nelle ore successive alla lettura dell’editto, s’è registrato un picco di consultazioni di dizionari, talvolta persino cartacei (e qui il termometro della disperazione è esploso), e codici civili, e penali, alla ricerca di cavilli, sinonimi, precedenti, etimologie a cui aggrapparsi per poter includere, tra i congiunti, i non familiari, non affini, né affiliati, insomma gli amanti, gli amici, gli affetti difettosi con cui intratteniamo relazioni pericolose. Ma niente. Dopo molte ore in cui il paese è parso vivere una lunga notte prima degli esami, il governo ha chiarito, inequivocabilmente, che i soli ai quali possiamo aprire la porta o citofonare sono gli spaventosi affetti stabili, ovverosia familiari, fidanzati e congiunti loro. Bella e crudele ironia, o forse sfida, per il paese dove la famiglia ammazza più della mafia, e perdonerete la crudezza, ma così crudamente titolava, l’estate scorsa, l’Huffington Post, per dare la notizia del calo di aggressioni, omicidi, violenze d’ogni tipo degli ultimi due anni, evidenziando tuttavia che – dati Eures e ministero dell’Interno – ad aumentare, e di parecchio, erano i delitti domestici. Tra il luglio del 2018 e quello del 2019, in Italia sono state assassinate 307 persone, 145 delle quali “in ambito familiare”, dove s’è infelici sempre e a modo proprio, scrisse un certo russo, e piuttosto spesso ci si scanna, dicono i dati italiani.


Siamo stanchi, infiacchiti, disorientati, incerti, più poveri e, prima d’ogni cosa, escoriati dalle relazioni familiari: le relazioni fatali


 

“La famiglia è sacra”, dice Vittorio Gassman ne “La famiglia” di Ettore Scola, il film colossale, per non dire il kolossal, sulle forze centripete e centrifughe delle relazioni tra genitori, figli, fratelli, sorelle, nipoti, cugini, suoceri, zie, su come nel nostro paese accada tutto in famiglia, sacra perché è in essa il dio pagano per il quale ci si sacrifica per perpetrare il sangue, il cognome, la stirpe, l’onore e venirne protetti, all’uopo nascosti o sfoggiati; è in essa il dissuasore dei grandi amori, il monte di doveri che restituiscono in cambio una minuscola pianura di diritti. L’irrinunciabile veleno del tepore borghese che quanti ne ha fregati.

 

In famiglia non cambia mai niente e le colpe si lavano col tempo e l’omissione, è la ragione per cui scegliamo di tornarci, quando a un certo punto perdiamo il perdono di tutti, quando non abbiamo che forze per sbagliare, far gli asini, comportarci male. “Ho raccontato ottant’anni di vita in un appartamento, non ho mai girato in esterno perché tutto accade lì, da quando rientrano padri, madri, figli, a quando escono, e allora li abbandono, li aspetto in casa”, ha detto Scola sulle riprese di quel film. La casa coincide con la famiglia, entrambe ci proteggono isolandoci, disabilitando la nostra mondanità, instillandoci una strana autarchia.

 

In Italia le rivoluzioni non si possono fare perché ci conosciamo tutti, certo, ma pure perché abbiamo tutti almeno un familiare per cui valga la pena tornare a casa a Natale, o almeno così è stato finora, vedremo cosa sapranno fare i mononucleari, bifamiliari, fratelli unici, nipoti senza nonni, in questa quarantena provatissimi giacché loro la famiglia se la son fatta fuori, l’hanno intelaiata con sconosciuti, l’hanno fondata sullo ius tinder, ché di sangue, prima di loro, hanno sentito dire che se n’è visto scorrere troppo. La famiglia non ti salva ma ti sorregge, ed è per questo che, nel film, quando il nipote Giulio chiede allo zio come stia, quello risponde “Quando mi sento meglio, mi sento peggio”.


Evitate di cascare tra le braccia dei cugini, ché a flirtare tra cugini si finisce ammazzati su una scalinata, come Sofia Coppola nel “Padrino”


 

Sentirsi meglio quando ci si sente peggio: eccola la fase due spiegata bene, con la sua libertà concessa e non conquistata, una fetecchia di bigiotteria che non siamo poi così disposti a difendere. Una settimana di fase 2 e già ci manca la fase1, già abbiamo ripreso a litigare con nostra nonna perché è sorda, con nostra suocera perché è una suocera, con il nostro fidanzato perché è figlio di quella. E la televisione fa schifo, e al bar si entra uno per volta, e i ristoranti sono chiusi, e gli amanti proibiti, e i parcheggi controllati, e le certificazioni incomprensibili, e le conversazioni stremate come cani usati a turno per uscire nella fase1. Siamo tesi, nervosi, animali stanchi. Aspesi: “Per quale ragione, dopo questi due mesi di tragedia, la vita imprigionata, il futuro che centinaia di futurologi promettono spaventoso, dovremmo essere cambiati, diversi, nuovi, generosi, pazienti, altruisti, sereni, democratici, educati, informati, affidabili, fiduciosi, onesti, prudenti, ottimisti, frugali, protettivi, responsabili, coscienziosi, consapevoli, addirittura fratelli, quindi non più infelici?”.

 

Le conseguenze della coabitazione tra laschi congiunti (e quindi: fratelli, nipoti, cognati, zii, e insomma nucleari e acquisiti) le ha raccontate Mario Monicelli in “Parenti Serpenti”, l’altro pilastro dell’enciclopedia familiare di questo paese, dove in meno di una settimana fratelli e sorelle e rispettivi coniugi e figli tornati dai nonni a festeggiare il Natale, si risolvono ad ammazzarli pur di non doverseli appioppare, come da loro richiesto, negli anni a venire – “io sono vent’anni che me li ciuccio, ora ciucciateveli voi!”. E così, dopo essersi confessati quale fratello ha scopato con quale nuora, quale congiunto ha rubato i soldi a quale affine, quale comò si vorrebbe eventualmente ereditare, fanno la sola colletta equa della loro vita, comprano una stufa a gas ai genitori, gliela regalano per capodanno, quelli la accendono e poche ore dopo, mentre la diletta stirpe se la spassa al veglione di quei veglioni che soltanto negli anni Ottanta erano legali, saltano in aria e buona notte al secchio.

 

Nell’Amleto muoiono tutti perché sono tutti congiunti, o affini, o affiliati elettivi, e si stringono attorno a un matrimonio esecrabile, a una vedova che ha sposato il fratello del marito morto da poco, dilaniando il cuore di suo figlio, del regno, della stirpe. In “Game of Thrones” anche, muoiono praticamente tutti perché tutto gira intorno a un incesto, alla testa della casa dei Lannister, i ricchi e belli e potenti e biondi della saga, c’è una regina che va a letto con suo fratello, e ci fa anche un figlio che mette tra le braccia di suo marito, e che le muore sotto gli occhi, giovane piccolo bastardo, avvelenato il giorno delle sue nozze.


“La famiglia è sacra”, dice Gassman ne “La famiglia” di Ettore Scola. La coabitazione in “Parenti serpenti” di Monicelli


 

In famiglia ci si uccide per amore di sghei, culto di sé, vendette edipiche, diritti dinastici, gelosia, che si sia ricchi o no, belli o no, virtuosi o no, nevrotici o no. In famiglia ci si uccide perché non c’è ragione di non essere che sé stessi, e allora capita che si diventi animali, o perfidi con intenzione. In famiglia s’ammazzano bambine troppo più belle delle cugine più grandi, come nel delitto di Avetrana, e le si seppellisce in casa, e si mente alla magistratura per mesi, con una complicità che racconta alla perfezione perché la mafia è un fattore identitario di un pezzo d’Italia. In famiglia si sospende la legge degli altri e si obbedisce a quella dei capostipiti, fintanto che quei capostipiti non invecchiano. In “Brutti, sporchi e cattivi”, quando a tutti gli orripilanti congiunti di Giacinto (Nino Manfredi), orripilante anche lui, diventa chiaro che il padre padrone ha accumulato un tesoretto che non intende condividere con nessuno di loro, che pure vivono nella miseria, in una baracca malandata ambiente unico in una borgata romana di quelle tutte lamiere e fango, decidono di ucciderlo e spartirsi il suo oro. Lo avvelenano a un pranzo di famiglia, lui se ne accorge, si fa una lavanda gastrica da solo, con una pompa della biciletta, sopravvive e, per vendicarsi di tutti, qualche giorno dopo si presenta a casa con una prostituta, e fa di lei la sua moglie elettiva, morganatica né più ne meno della prima – “Giacì, ma com’è tu moje?”, “Comprensiva, basta menaje”.

 

Si può morire di famiglia restando vivi ma appassendosi, assorbendone le nevrosi, accettandone gli obblighi, in cambio di raccomandazione, pasti caldi e magnificat materni. Questo non è un paese per emancipati, ma anche la cena di Natale di Festen, film danese, finisce nel sangue. La tossicità familiare è universale, specifici sono i suoi veleni e, talvolta, gli antidoti. La panacea di tutti i mali è la distanza, cantava Daniele Silvestri, quando potevamo essere crudeli e non correva obbligo d’empatia, e chi lo sa meglio di noi, che siamo salvi fintanto che ci distanziamo, o almeno così ci dicono angusti burocrati e invigoriti scienziati.

 

Fa’ miglia, così Stefano Bartezzaghi ha disposto la parola, e lo ha fatto in tempi incontaminati, quando la distanza era una sospirata utopia. La famiglia logora chi la ha, lavora indisturbata e indefessa al distanziamento dei suoi membri rendendoli nemici, spesso ci sono più miglia tra due fratelli che tra due amici di bar. La famiglia è una provincia: le si sopravvive da fuori, la si ama quando la si racconta agli altri, la si sopporta al telefono, e forse neanche troppo. Chi l’avrebbe immaginato mai che il solo antidoto alla famiglia, il poter stare lontani metri e miglia, migliaia di miglia, dai familiari, ci sarebbe stato tolto, ricacciandoci in un inferno rosa che ci viene anche spacciato per salvavita?

 

La quarantena finirà, torneremo agli affetti instabili, e chissà quanto ci metteremo a riabituarci alla loro libertà, al doverci conquistare la loro scelta, il loro amore, il loro rispetto, e a non essere amati per quello che siamo, la sola cosa buona che, in fondo, la famiglia, sa fare, pur tartassandoti, ma restandoti accanto, miserabile, meritevole o immeritevole o meno che tu sia, ed è per questo, in fondo, che agli italiani piace così tanto, perché non crolla, perché non t’abbandona, perché è un sussidio statale inestinguibile, al cui tesoretto contribuiscono in tanti, ché se si stufano i genitori, ci sono sempre le zie.


In famiglia ci si uccide perché non c’è ragione di non essere che sé stessi, e allora capita che si diventi animali, o perfidi con intenzione 


“Spine letali, spine pungenti, tali sono le zie e tutti li parenti”, scrisse il poeta Leonardo Sinisgalli, nel secolo scorso che però tornerà, o almeno così dicono, e tornerà vestito da anni Cinquanta, e madri invadenti, e ragazze panificatrici, e lavori domestici, e vita da casa, e affetti stabili, e amori epistolari, e abbracci clandestini, e proclami all’unità nazionale.

 

Ci salveranno le vecchie zie? scrisse Longanesi, ed era il 1953, e voleva dare addosso alla borghesia, la stessa che Scola aveva ritratto ne La famiglia, e fatto a pezzi ne La Terrazza (che, ricorda Guia Soncini, andò male, secondo Furio Scarpelli, perché agli intellettuali italiani sta bene se viene massacrata la classe operaia, ma non se vengono massacrati loro). Qualche decennio più tardi, Edmondo Berselli scrisse che quella borghesia non esisteva più, era archeologia sociale e che il mondo dal quale secondo lui le zie ci avrebbero salvato, essendo “le custodi dell’ordine classico” e “tutte maestre, o tutte col diploma magistrale”, era “il mondo delle automobili, del socialismo, della pubblicità, della civiltà di massa: in una parola, la modernità”. Ora che, per colpa del Covid, la pubblicità è saltata, l’automobile si può prendere ma con un milione di accortezze e al massimo in due e comunque uno avanti e uno dietro e allora tanto vale andare a piedi o in bici o in monopattino, ora che la civiltà di massa è stata additata come principale responsabile del virus, che sarebbe stato inviato dalla dea madre per punirne la ubris, siamo così certi che quel mondo pre moderno non stia scongelandosi per tornare e, insieme a lui, le sue terrificanti zie?

 

Le zie alle quali stiamo portando torte al venerdì sera, perché solo questo ci è dato fare, stiamo bene attenti che non ci avvelenino il cicchetto, come le due sorelle adorabili pazze di “Arsenico e Vecchi Merletti”. Vediamo di non abbassare la guardia, di non arrenderci al sentirci peggio quando ci sentiamo meglio. La fase tre arriverà, e con lei i suoi affetti divergenti, disgiunti, clandestini, innominabili: abbiate la pazienza di aspettarli ed evitate di cascare tra le braccia dei cugini, ché a flirtare tra cugini si finisce poi ammazzati su una scalinata, come Sofia Coppola nel “Padrino” parte terza, epilogo di tutto.