Amanda Knox a Modena, dove ha partecipato al Festival della Giustizia penale. Per pagarsi il viaggio, ha dato fondo ai risparmi per la sua festa di nozze (Foto LaPresse)

Il tribunale è Tinder

Simonetta Sciandivasci

Quanti amori sbocciano nelle aule in cui si divorzia e quanto si delinque pur di stare in galera anziché sotto il tetto coniugale. Cronache di amori e sbarre

Ve lo ricordate tutti il “Quanto me costi” scritto su un vassoio per dolci che il papà di Ivano (Carlo Verdone in “Viaggi di nozze”) aveva appeso sul cruscotto della macchina che aveva regalato al figlio, il giorno del suo matrimonio? Che nostalgia, per quelli contro un muro, o in una Cabriolet dove si può, a 220 all’ora. Erano altri tempi, adesso non si grava più sui genitori, ci si paga nozze (e talvolta divorzi) con il crowdfunding, e in fondo è una scelta coerente: sposarsi è un atto pubblico e con il denaro del pubblico va finanziato. No? Amanda Knox si mariterà presto e lo farà con i vostri soldi, se vorrete mandargliene (e perché mai non dovreste?), e sul sitarello che ha aperto per raccontare al mondo la sua storia d’amore con Christopher Robinson ha scritto tutte le indicazioni per farlo, insieme a invoglianti dettagli che convinceranno anche i più scettici a rendere perfetto e bellissimo, magari anche ben oltre i limiti della sostenibilità economica, il giorno del loro sì. Dice Knox d’esser ricorsa al crowdfunding perché le spese che ha dovuto sostenere per venire in Italia, qualche settimana fa, a parlare al festival della Giustizia penale di Modena, sono state così alte da costringerla a dar fondo ai risparmi che aveva messo da parte per la sua festa di nozze. Le servono 10 mila dollari, una cifra con cui in una Sala Garden qualsiasi sotto Eboli paghi appena il pranzo a un quarto degli invitati, mentre lei promette investimenti in “costumi spaziali” (forse a tema Star Wars), e “paradox props” (come “centrotavola che deformano il concetto di tempo”). Ecco cosa succede quando i costi della malagiustizia sono alti come in Italia: 50 per cento di patetico orrore e 50 per cento di stupefatta meraviglia. Sotto il cielo di questa estate italiana e non solo, la categoria favorita per gli affari di cuore e il battito animale che batte come non ce n’è è quella dei sopravvissuti a un tribunale, talvolta anche a una cella, e la lieta novella di Amanda è la puntata pilota di un reality ricco di esempi.

 

Teniamo sempre a mente che le catene del matrimonio, come ha scritto Alexandre Dumas, sono così pesanti che per portarle bisogna essere in due, a volte anche in tre. Altre volte ancora, però, non le si riesce a portare neanche in dieci, in venti, in trenta, e non resta che spezzarle. Si va dall’avvocato, ciascuno dà l’ascia al proprio, un giudice coordina l’operazione, dice quando procedere e liberi tutti, verso il resto della vita che resta una catena, e qualche volta fa un po’ male. L’anno scorso, a una giudice di Perugia è successo d’innamorarsi, ricambiata, di un uomo della cui separazione aveva emesso la sentenza. L’ex moglie, la settimana scorsa, ha presentato un esposto al Consiglio superiore della Magistratura, che dovrà stabilire se i due si amavano da prima, da dopo, da quando, e quindi decidere quale sia il momento esatto, o almeno giusto, a partire dal quale una giudice (o un giudice) possa innamorarsi, nell’esercizio delle sue funzioni, di chi è chiamato a separare.

 

La categoria favorita per gli affari di cuore e il battito animale è quella dei sopravvissuti a celle e sentenze

Lo avremmo fatto tutte: prima saremmo andate da lui, gli avremmo chiesto da quanto andava avanti, se la sua amante lo aveva spinto a portarci in tribunale, o se era cominciato tutto lì dentro, e quando, non sarà stato quella volta che il suo avvocato ci aveva detto di pensarci bene, di guardar bene sotto al letto, se fosse rimasto dell’amore, e riacciuffarlo, e provare a innaffiarlo ancora, e lui aveva pianto, e anche noi, lui ipocrita coccodrillo giuda, e noi sceme a credergli, ad abboccare sempre a tutto. E dopo, naturalmente, e indipendentemente dalla disponibilità di lui a risponderci, ché tanto cosa vuoi che ti risponda un giuda ipocrita magistratofilo, avremmo comunque chiesto al nostro avvocato come fargli pagare anche questa, e avremmo coinvolto il CSM, e forse pure l’Aia, sicure che, come è successo alla perugina, saremmo finite sui giornali e avremmo dato al paese la storia d’amore dell’estate, l’argomento pomeridiano (ma pure preserale) perfetto, ricco di implicazioni, facile alle metafore com’è, senza contare quanto bene si presta alle fazioni. Moltissime fazioni: chi sta con la giudice e chi no; chi con l’etica professionale e chi con l’amore; chi crede che l’amore non intossichi ma migliori e quindi che un giudice innamorato sia un giudice migliore e chi crede che l’amore, quale che sia, faccia perdere se non senno almeno lucidità e quindi impedisca l’imparzialità; chi crede che amare significhi lasciare liberi – e chi ti ama più e meglio di una giudice che ti scarcera dalla reclusione coniugale e ti restituisce al mercato? – e chi crede il contrario, cioè che quando si ama ci si vincola, perché amare e vivere ci tagliano a pezzetti, e c’è bisogno di una catena, una fune, un cerotto megagalattico, una colla speciale che li tenga insieme, uniti il più possibile.

 

Nelle cronache locali che hanno riportato la notizia è evidenziato che il processo di separazione è durato meno del previsto, probabilmente perché i due coniugi hanno un bambino, cosa che pure se complica le cose, in casi fortunati le abbrevia anche, perché le parti pensano al suo bene, evitando di trascinarlo in lungaggini che ne aggraverebbero la tristezza e il disorientamento. Quindi, in meno di un anno, in un tribunale ingolfato da 1063 (MILLESSESSANTATRE!) cause di divorzio o separazione, una sentenza che di solito viene depositata in tre o quattro mesi, ce ne ha messo meno di uno. E siamo nel novembre dello scorso anno, ed è il momento in cui lui va da lei e le dice, cara, non prendertela, ho aspettato a dirtelo perché non volevo ferirti, comunque io sto con un’altra, non è una cosa che non dura da molto, però siamo una coppia stabile e non te lo direi se non fosse che lei è la nostra giudice, e quindi mi sembra doveroso metterti al corrente, e poi sai ho anche pensato che è una cosa stramba ma bella, e che tutte le volte che la guarderò penserò a te, e sarà più facile accettare che abbiamo fatto la cosa che andava fatta, anzi, forse mi sono innamorato di lei perché attraverso lei ci siamo per la prima volta fatti del bene. Visto il tenore di alcune cose che ci tocca sentirci dire da certuni lasciatori, capirete che un’arringa del genere è del tutto plausibile. Succede. È l’opposto della sindrome di Stoccolma, di certo (ma proprio certo certissimo?). Magari è un’altra sindrome ancora, e chissà come si chiama, forse riconoscenza.

 

Ci sono precedenti illustri nell’accoppiamento tra divorzisti (Julianne Moore e Pierce Brosnan in “Laws of attraction”) e tra il divorzista e la sua assistita (Charlotte in “Sex and The City”; Bree Van De Camp in Desperate Housewifes). Può essere una buona idea sposare il possessore della spalla su cui si è pianto per la fine del proprio matrimonio, o perché ci arriva per posta un invito alle nozze di quello con cui avremmo voluto passare la vita e che sei mesi prima ci ha lasciate dicendo che non si sarebbe sposato mai e poi mai, né avrebbe mai e poi mai fatto un figlio con chicchessia, né preso un cagnolino, né comprato un acquario, né lasciato lo spazzolino nel bagno di qualcuno che non fosse sua madre. In Harry ti presento Sally, Meg Ryan e Billy Crystal non sarebbero mai finiti a letto insieme se l’ex di lei non l’avesse invitata al suo matrimonio e lei non avesse capito, piangendo sulle spalle di Billy, che nessuno rispetta mai le posizioni che prende, perché la vita è una serie di incontri destinati a ribaltarle, e che il suo ex non voleva amare lei, non chicchessia.

 

I tribunali diventano grandi luoghi di rimorchio e ripristinano l’amore a vista e per contatto: la distopia buona del nostro tempo

L’avvocato è una spalla ancora migliore su cui piangere prima, e da sposare poi: ti consola, ti rimborsa, ti vendica, ti emancipa e, in tutto questo, parla in tua vece, mentre tu, seduta dall’altra parte del tavolo, guardi giuda, zitta, pacifica, rannicchiata nell’eleganza del riccio. Bello, vero? Peccato che sia uno scenario anni Novanta, e stia tramontando, spinto al largo da divorzi brevi, assegni divorzili ritirati alle signore ‘capaci di provvedere a loro stesse’, matrimoni aspirazionali (quelli che contraggono gli intrepidi del ‘non sarà un sì pronunciato davanti a una platea di zie con la flebite a dare eternità al nostro amore’, i pacs domestici dell’amore eterno fino a che dura). S’arriva in tribunale più calmi, quasi pronti, quasi abituati, nessuno dei nati tra Cernobyl e la caduta del Muro di Berlino che si sia sposato o si sposi finge di non sapere che potrebbe non durare, e che si finirà in uno studio legale, una delle poche spese che non allerta il millennial, perché in Italia ci sono due macchine e tre avvocati per abitante, la qual cosa inflaziona le parcelle al punto che esistono avvocati che si mettono all’asta su Groupon.

 

È insomma possibile che chi si separa o divorzia arrivi in tribunale con animo calmo, spirito libero, cuore sgombro, chili persi, esborso contenuto, forse persino nullo (la causa potrebbe averla seguita un ex compagno di scuola), insomma invece che con le ossa rotte, con le ali pronte a volare. Mettiamo da parte la malizia, gli anni Novanta, i cuori infranti e le perfidie e le astuzie che hanno ispirato e perpetrato per decenni a mezzo matrimonialista. Questo amore tribunalesco perugino tra giudice e divorziando è di quelli da coppia più bella del mondo, di quelli che sbocciano nei grandi prati verdi dove nascono speranze, e quindi anche nuove libertà.

 

Una giudice di Perugia s’è innamorata, ricambiata, di un uomo della cui separazione aveva emesso la sentenza

Senza contare che gli avvocati sono terribili, difendono i diavoli, ma i giudici hanno tutto un je ne sais quoi, un mondo di misteri, e fascino, e suspence, e impalpabili attese dell’inatteso. Lo sa chiunque abbia visto La corte, il film di Christian Vincent con Fabrice Luchini nella parte di un giudice schivo e quasi trasparente, intransigente, cattivissimo, che però per amore, ah per amore cosa fa, uh quanto fa.

 

Una distopia buona, per non dire proprio un’utopia, potrebbe essere questa: i tribunali diventano grandi luoghi di rimorchio (e ci salvano da Tinder, e ripristinano l’amore a vista, l’innamoramento per contatto), rianimazione, rinascita. Liberazione, anche. In logica partnership con le carceri. Perché sì, anche il carcere aiuta gli amanti, ad amarsi secondo il nuovo Vangelo psicoterapico, e cioè standosi vicino ma tenendosi lontano, come canta Franco 126, o a liberarsi l’uno dell’altra, che è la forma d’amore del futuro, e per alcuni pure del presente. L’amore per sé è diventato un fatto di coppia, l’avete capito, no? Straziami e di distanza saziami.

 

Nella nostra distopia buona, se da ricovero intensivo per cuori devastati e assetati da sangue, il tribunale diventa la casa delle libertà, da muro che divide gli amanti, il carcere diventa un rifugio dell’uno dall’altra. Il mese scorso, a Matera, ex città per duri, un pregiudicato agli arresti domiciliari ha chiesto di essere ricondotto in carcere perché non sopportava più sua moglie, e quando gli è stato detto di no, lui è evaso (da casa sua) ed è andato in commissariato a dire avete visto, sono un delinquente recidivo, ho infranto la legge mentre scontavo la mia pena per aver infranto la legge, sono orribile, portatemi in cella e buttate via la chiave, ma ancora niente, lo hanno riportato a casa, ma lui, testardo, è andato in carcere, h aggredito due agenti e finalmente ci è riuscito, s’è fatto arrestare. Le catene del matrimonio, o dell’amore, caro Dumas, sono più insopportabili delle sbarre di una cella, anche quelle spesso da sostenere in più d’uno. Quant’è bella la cronaca di provincia, vero? E noi, spioni, chiacchieroni, metaforisti, linotipisti pessimisti, sappiamo prenderla per quella che è, certamente, ma non sbagliamo a vederci anche un po’ di segnali, di umore universale, di tendenza umana, o a volerceli vedere per forza per esemplificare qualcosa che ci scorre nelle vene ed è l’indisponibilità che abbiamo a sostenere l’altro, che è al mondo per rendersi, presto o tardi, insostenibile, indigesto, difficile, soverchiante, secondo secondino.

 

Ha scritto Alexandre Dumas che le catene del matrimonio sono così pesanti che per portarle si deve essere in due, a volte in tre

Non s’era ancora finito di sghignazzare sul galeotto che preferisce il carcere alla donna sua, che è uscita un’altra esilarante terribile notizia di amanti che solo grazie al carcere hanno trovato la pace. Questa. Matteo Corbani, trentasettenne, evade dalla prigione di Santa Caterina di Fossano, dove è finito per truffa, per tornare dalla sua compagna, che tuttavia lo aveva lasciato durante una delle visite con le sbarre tra lei e lui, e che, coerentemente, quando lui ha scampanellato, non gli ha aperto la porta. E perché avrebbe dovuto? Ha chiesto lei una fuga d’amore o un gesto estremo? No, naturalmente. Lei aveva chiesto quello che abbiamo imparato a chiedere a chi ci ama: lasciami stare (di solito, premettiamo “Se mi ami”, e non ci accorgiamo di che paradosso sia, chiedere a uno che ci ama, quando ci ama, di amarci lasciandoci stare, ma forse più che paradosso è soltanto una forma nuova, e bisognerà che ci adattiamo).

 

Noialtre, a Lando Fiorini che cantava “Come te posso amà, s’esco da ’sti cancelli quarchiduno l’ha da pagà” e “Amore, amore, manname un saluto, sto a Regina Coeli carcerato”, avremmo risposto “resta dove sei, disavanzo sociale, sei un amore tossico, puah” (comunque la canzone è pure su Spotify, si chiama Er canto dei carcerati, ed è stupenda, viene dal tempo in cui Roma era bruttissima-bellissima). Noialtre scriviamo alla posta del cuore di Ester Viola, che è bravissima, e spietata, heart nazi, e soprattutto fa l’avvocato.

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