Rose Arianna McGowan e Asia Argento (foto LaPresse)

Morte ai molestatori

Simonetta Sciandivasci

Una macchia indelebile: resta anche quando cadono le accuse. Per cancellarla, qualche volta ci si uccide

Quando la procura di Roma, a fine luglio, ha chiesto l’archiviazione per Fausto Brizzi perché “il fatto non sussiste”, Dino Giarrusso, autore del servizio delle “Iene” che del regista aveva fatto il Weinstein italiano, ha detto a Repubblica: “Mi sento come uno che ha avuto il merito di scoperchiare una realtà orribile, avendo raccolto le confessioni di quindici ragazze che raccontavano fatti veri, incontrovertibili e gravissimi. Fatti narrati da testimonianze dirette e mai smentiti”. Il giorno di Ferragosto, il Fatto Quotidiano ha riportato che – “secondo fonti vicine a Brizzi” – una ragazza spagnola avrebbe testimoniato (ed esisterebbe tanto di verbale, firmato naturalmente da lei) di essere stata contattata da una di quelle quindici narratrici di fatti incontrovertibili, con la quale aveva fatto amicizia durante una vacanza a Ibiza, che le proponeva di andare in televisione a raccontare d’essere stata molestata dal regista durante un provino: se avesse accettato, avrebbe ottenuto lavoro e fama. Secondo le stesse fonti, non si tratterebbe di un caso isolato e alcune delle donne contattate avrebbero accettato lo scambio.

   

“Ho scoperchiato una realtà orribile”, ha detto Dino Giarrusso all’indomani della richiesta di archiviazione del caso Brizzi

Chi lo sa come andrà a finire, se finirà mai o se, invece, dovremo accontentarci di un epilogo in fieri e sempre di nuovo. Chissà se dovremo farci andar giù la verità ottenuta di terremoto in terremoto anziché di vaglio in vaglio, e la giustizia stabilita secondo percezione e posizione, fuori dai tribunali, prima dei tribunali, nonostante i tribunali. La decisione della procura di Roma, d’altronde, ha suscitato svariati “quelle donne non otterranno mai giustizia” e non deve stupire: la sentenza sulla colpevolezza di Brizzi era stata già emessa, in televisione e su Twitter, e tanto sarebbe dovuto bastare, secondo movimentisti e movimentiste e iene e gazzelle, che dai giudici al massimo s’aspettavano formale ratifica.

 

“Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui”, scrisse Philip Roth ne La macchia umana, il romanzo che raccontava lo sconquasso della vita di uno stimato professore universitario di letteratura, cacciato dalla sua università per aver dato degli zulù a due studenti di colore (non si presentavano mai a lezione, lui neppure sapeva che faccia avessero, s’era espresso in modo infelice, sì, ma del tutto casuale). Nella macchia che lascerà Fausto Brizzi ci saranno, per sempre, quindici accuse di violenza sessuale: accadrà indipendentemente dai giudici, dalle accuse, dalle difese, dalle verità incontrovertibili o controvertibili che verranno disseppellite, se ne verranno disseppellite altre, ancora. E se anche tutto dovesse risolversi con una sua assoluzione piena, resterà, incancellabile, il sospetto della sua colpevolezza ad allargare quella macchia, a renderla un lago.

 

Quanto è sostenibile, nella vita di un uomo, il pensiero che quella macchia lo identificherà e, forse, gli sopravviverà?

 

“Il #metoo è una delle ragioni che hanno spinto quattro persone a suicidarsi. Sentivano che questo movimento sempre più isterico aveva reso le loro vite irrecuperabili. Quando cominceremo a parlarne?”, ha scritto di recente Brendan O’Neill su Spiked. Il primo caso che riportava è quello di Benny Fredrikkson, per anni a capo del Kulturhuset Stadsteatern, il centro delle arti di Stoccolma, che alla fine del 2017 è finito su tutti i quotidiani e le televisioni del paese per “cattiva condotta sessuale e bullismo” e da quel momento ha perso il lavoro ed è stato definito da tutti un mostro, un “Piccolo Hitler” (alcune donne hanno giurato che lui le costringeva ad abortire dopo averle violentate e messe incinte): prima che le indagini accertassero la veridicità delle testimonianze contro di lui, peraltro tutte anonime, si è ammazzato. E’ successo a marzo di quest’anno. Sua moglie, la cantante lirica Anne Sofie von Otter, ha rilasciato a fine luglio un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit, nella quale ha raccontato l’inferno di disturbi post traumatici, depressione, vergogna, sconcerto in cui suo marito era precipitato dopo aver perso il lavoro ed essere finito su tutti i giornali, fotografato come un mostro, un maiale, un pervertito, senza che nessuno, neanche tra i suoi amici o colleghi più fidati, intervenisse per difenderlo o, almeno, implorare cautela, tanto intimorente era l’atmosfera (chi vuole passare per l’avvocato del diavolo e, per di più, rischiare di rimetterci la carriera?). Per ora, nessuno dei reati imputati all’uomo è stato confermato dalle indagini. Il Washington Post ha contattato Lena K. Samuelsson, editrice del giornale svedese che, per primo, ha dato la notizia delle accuse a Fredrikkson, la quale ha ammesso che la copertura e il racconto dei fatti potrebbero essere stati influenzati “dai tumulti del #metoo” e che, se sarà necessario, “ci sarà spazio per l’autocritica”. Per ora, non è stato cancellato o modificato nessuno degli articoli pubblicati sul conto di Fredrikkson nelle settimane in cui tutta la Svezia gli faceva il vuoto intorno, scavando un fossato profondissimo nel quale chiunque ha potuto vomitare, indignazione, odio, sentenze.

 

“Noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso”, scrisse Philip Roth

A novembre scorso, il parlamento inglese è finito nel mirino degli hashtag perché un numero considerevole di ministri e funzionari politici era stato accusato (si noti che sempre di questo si tratta e quasi mai di regolari denunce) d’aver molestato o violentato delle donne: tra di loro c’era anche Carl Sargeant, laburista, 49 anni, ministro nel governo locale del Galles, sposato e padre di due figli, che si è dimesso immediatamente e, altrettanto velocemente, è stato sospeso dal suo partito. Si è dichiarato innocente, ha chiesto che su di lui venisse aperta un’inchiesta indipendente. Pochi giorni dopo, si è ammazzato. A luglio, il Guardian ha dato notizia dell’estromissione dell’avvocato dei familiari di Sargeant, Neil Hudgell, dalle indagini sulle circostanze che lo hanno indotto al suicidio e, soprattutto, sul modo in cui è stato gestito il suo licenziamento: ha raccontato che gli viene regolarmente impedito di interrogare i testimoni e che nessuna delle richieste della famiglia è stata soddisfatta o presa in considerazione. Hudgell ha promesso battaglia, ottenendo l’appoggio del governo gallese, che già a giugno aveva insistito affinché alla famiglia Sargeant fosse permesso di collaborare con gli inquirenti. Il dibattimento si riaprirà in autunno.

 

“Jill è una vittima di questa nuova cultura dell’informazione illimitata e della presunzione di considerare le affermazioni come fatti. La velocità con cui sono circolate notizie sul suo conto deve averla convinta che mai sarebbe riuscita a sostenere la sfida che sarebbe stata chiamata ad affrontare”, si legge nelle dichiarazione rilasciata dalla famiglia di Jill Messick, all’indomani del suo suicidio, sei mesi fa. Messick, ex produttrice della Miramax, aveva lavorato per la società di Harvey Weinstein tra il 1997 e il 2003: Rose McGowan, tra le accusatrici di Weinstein, l’aveva inclusa negli elenchi di complici del produttore, urlandole contro l’imminenza della vendetta su tutto il sistema che la accusava di aver coperto. In verità, nel 1997, McGowan si era rivolta a Messick per confessarle di essere stata violentata dal produttore: quella ne aveva anche parlato con i suoi superiori, ma poiché non molto tempo dopo l’attrice era stata scritturata da Weinstein, aveva pensato che la situazione si fosse risolta – diciamo – diversamente. Messick non ha mai commentato gli improperi e le minacce della McGowan, però non ha retto il colpo, si è sentita soffocata per sempre, ha pensato che mai avrebbe avuto la forza per far cessare quella guerra contro di lei (peraltro, agli esordi del #metoo, aveva espresso vicinanza e solidarietà al movimento, riconoscendogli l’importanza di aver aperto un varco nell’omertà hollywoodiana). Anche nel suo caso, la macchia umana dev’esserle sembrata insopportabile fino a indurla a credere che il solo modo per liberarsene fosse scomparirci dentro, annegare nel suo lago, morire. Da diverso tempo, Messick soffriva di depressione e disturbi bipolari e la sua condizione era nota, tanto nell’ambiente quanto fuori. Dopo la sua morte, McGowan ha semplicemente scritto su Twitter: “Weinstein ci ha fatto questo, possa tu trovare la pace”.

 

A maggio scorso, mentre Weinstein si consegnava alla polizia, McGowan si è filmata, gaudente come fosse il giorno del suo diciottesimo compleanno (Asia Argento, sua grande amica, in quella occasione scrisse su Twitter: “Fa il primo passo verso l’inferno”).

 

“Il #metoo è una delle ragioni che hanno spinto quattro persone a suicidarsi, quando ne parleremo?” ha scritto Brendan O’Neill

I capitani delle rivoluzioni, d’altronde, sanno che in ciascuna di esse esiste un margine più o meno contenibile di effetti indesiderati e di mali necessari: estirpare i maschi predatori dalla faccia della terra val bene la testa di qualche innocente.

 

Nessun regolare processo neanche per l’attore sudcoreano Jo Min-ki, ritrovato impiccato nel suo appartamento di Seul, a marzo scorso: otto donne lo avevano accusato di averle violentate e lui aveva immediatamente perso il posto di lavoro all’Università di Cheongju, dove insegnava recitazione. In Corea del Sud, il #metoo ha attecchito all’inizio dell’anno e, finora, i suoi bersagli sono stati quasi tutti uomini di potere o comunque piuttosto celebri, come il regista Kim Ki-duk e il poeta Ko-Un.

 

Il movimento Mra (Men’s Right Activism) accusa il #metoo di aver ucciso questi uomini e, quindi, di aver rappresentato per ciascuno di loro una induzione al suicidio, in quanto tale legalmente perseguibile. Come sempre quando si discute di persone che si tolgono la vita, è un azzardo – in questo caso tendenzioso e meschino, perché impiegato in una guerra mediatica, una specie di campagna uomini contro donne, speculare a quella indetta, anche se non implicitamente, da alcune voci del femminismo recente. Tuttavia, queste morti dicono qualcosa di molto rilevante su come espungere il diritto e le sue procedure, rimpiazzandole con l’ira e la vendetta di piazza, sabotando il principio dell’innocenza fino a prova contraria, sprofondino l’essere umano in un abisso dal quale può diventare impossibile risalire.

 

I primi di agosto, poco dopo essere stato licenziato dall’orchestra che dirigeva, quella del Concertgebouw di Amsterdam, anche lui per “comportamento sessuale inappropriato” e molestie imputatigli da due soprani che ne avrebbero riferito al direttore dell’istituto, Daniele Gatti ha respinto tutte le accuse e dato mandato ai suoi avvocati di “intraprendere eventuali azioni qualora la campagna diffamatoria dovesse proseguire”. Il copione di primo e secondo atto è sempre lo stesso: un uomo viene accusato di aver violentato, molestato, offeso una o più donne, alle quali si crede subito e senza condizioni – la grande lezione etico-culturale del #metoo è che alle donne bisogna credere sempre, l’altra è che “il garantismo è roba ottocentesca” e la dobbiamo ad Asia Argento. Nel terzo atto, quello della risoluzione del conflitto, o l’accusato muore o si rivolge alla giustizia.

 

E’ un intreccio terrificante.

 

Espungere il diritto, sabotando il principio dell’innocenza fino a prova contraria, sprofonda l’essere umano nell’abisso

Sul numero della scorsa settimana di Gioia!, sotto un articolo che raccontava il lavoro della Film Fund&Commission dell’Alto Adige encomiandone i risultati perché alla guida dell’ente ci sono due donne (ah, il girl power!), c’era un boxino intitolato “Che fine hanno fatto i molestatori?”. Come fossero meteore della tv anni Ottanta. C’erano, dentro, Weinstein che porterà a processo 40 e-mail di una delle sue accusatrici, dove verrebbe provato che tra loro c’era una relazione sentimentale e che lei era completamente consenziente e grata; Kevin Spacey che era stato accusato di aver molestato un attore, ai tempi minorenne (senza, tuttavia, portarselo a letto ), perdendo così la parte in House of Cards e nel suo ultimo film. Quando lo scandalo era finito su tutti i giornali, Spacey aveva detto di non ricordare l’episodio, ma aveva chiesto scusa.

 

Che fine fanno, invece, gli accusatori? Dino Giarrusso si gloria di aver disinnescato una bomba e parla di fatti incontrovertibili in dileggio a una procura (e lo fa dalle colonne del principale quotidiano italiano). Le ragazze che avrebbero accettato di inventarsi d’essere state abusate da Brizzi, chissà. Le denunciatrici anonime degli uomini che si sono ammazzati restano anonime. E’ cascata in piedi la ex squillo francese Sophie Patterson Spatz, che aveva tentato di trascinare nei guai il ministro dei Conti pubblici, Gérald Darmanin, all’inizio del 2018, rivelando di essere stata costretta a un rapporto sessuale quando si era recata nel suo studio per chiedergli aiuto in un processo (caso archiviato dalla magistratura senza alcuna imputazione a carico del ministro).

 

Tutto troppo noioso, sebbene non proprio ordinario, per occuparsene.

 

“Penso che il film dovrebbe semplicemente sparire. Non credo sia il momento che gli uomini accusati abbiano una voce”, ha detto nei giorni scorsi al New York Times Chloë Grace Moretz, protagonista di I Love You Daddy, il film di Louis C. K. bloccato e ritirato quando, a novembre scorso, alcune attrici avevano accusato il regista e comico statunitense di essersi masturbato davanti a loro (lui aveva confermato tutto, sin da subito). Nel film, Moretz ha interpretato una diciassettenne che s’innamora di un regista sessantottenne, un John Malkovich che con buona probabilità non vedremo mai.

 

“Casi come il tuo comportano il rischio reale che una donna violentata o molestata non denunci i suoi aggressori alla polizia per timore di non essere creduta”, è una delle cose che, lo riportava il Telegraph all’epoca dei fatti – lo scorso agosto, quando il caso Weinstein non aveva ancora sparigliato mezzo mondo sancendo il principio del “credere alle donne” come irrinunciabile criterio di giustizia – il giudice del processo a Jemma Beale le aveva detto in tribunale, prima di condannarla a dieci anni di carcere per aver inventato di sana pianta d’aver subìto stupri e violenze da molti uomini diversi, uno dei quali finito in prigione per due anni e, poi, scarcerato e rimborsato perché innocente. Beale aveva agito in quel modo per divertirsi e per far ingelosire la sua compagna.

 

Quando la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per Brizzi, s’è letto dappertutto, sui social network, che in quel modo si stava dando alle donne italiane un’ennesima prova che denunciare gli abusi non serve a niente. Il regresso all’infinito è appena cominciato.

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