Ila e le Ninfe, olio su tela di John William Waterhouse, (1896), Manchester, City Art Galleries (foto via Wikipedia)

L'Inghilterra censura le ninfe vittoriane per compiacere #MeToo

Giulio Meotti

Chi sono i prossimi, Tiziano e Picasso? Burqa per tutti. Oggi, in regalo nel Foglio, il poster del dipinto che non vogliono farvi vedere

Roma. “La sua arte era sempre gradevole”, scriveva il Times nel necrologio di John William Waterhouse, il maggiore pittore preraffaelita inglese scomparso nel 1917. Ma per i curatori della Manchester Art Gallery, una delle maggiori del Regno Unito, Waterhouse oggi è in odore di “sessismo”. Così, nella follia scatenata dalle eumenidi di #MeToo, “Ila e le Ninfe”, uno dei suoi quadri più famosi al mondo, realizzato nel 1896, da ieri è nascosto alla vista del pubblico. Il dipinto di Waterhouse ritrae ninfe pubescenti e nude che tentano un giovane. Ma è una fantasia vittoriana che, nel clima attuale, potrebbe offendere il pubblico.

 

Anche le cartoline del dipinto saranno rimosse dalla vendita nel museo. Il dipinto è stato sostituito con un pannello che spiega che era stato lasciato uno spazio vuoto “per stimolare le conversazioni”. Fallito il tentativo di cacciare la Thérèse di Balthus dal Met, ci sono riusciti con le figure classiche di Waterhouse. Clare Gannaway, la curatrice di arte contemporanea della galleria, ha affermato che l'obiettivo della rimozione è di stimolare una discussione, non di censurare. Gannaway ha anche detto che i dibattiti su #MeToo hanno alimentato la decisione.

   

L'artista Michael Browne, che ha partecipato all'evento in cui è stato eliminato il dipinto, si è detto preoccupato. “Non mi piace la sostituzione e la rimozione dell'arte. Non sappiamo per quanto tempo il dipinto stia fuori, potrebbe essere giorni, settimane, mesi. A meno che non ci siano proteste, potrebbe non tornare mai più. So che ci sono altre opere nel seminterrato che probabilmente saranno considerate offensive per gli stessi motivi e che non vedranno la luce”. Al posto del quadro adesso c'è una parete in cui i visitatori possono lasciare i loro commenti. Alcuni sono feroci con i curatori: “Chi diavolo credete di essere? Femminismo impazzito. Mi vergogno di essere una femminista. Era il mio quadro preferito. Dov'è la mia donna nuda? Repressione in stile talebano e da parte di una donna”.

 

Ira pure sui social. “Avete appena comunicato a milioni di donne che devono vergognarsi del proprio corpo. Cosa vi fumate? Non meritate Waterhouse. Burqa per tutti. I totalitarismi e l'arte non vanno d'accordo. Il politicamente corretto è solo un'altra forma di fascismo”.

  

Si chiede anche il Guardian, giornale di sinistra ma non banale: “Questa censura appartiene al cestino della storia assieme alla guerra alla cultura gay e al perseguimento di Penguin Books per la pubblicazione dell'Amante di Lady Chatterley. Quale utopia hanno in mente questi nuovi puritani, un mondo che fa marcia indietro di sessant'anni o più in un'era di repressione e ipocrisia”.

 

 

Trent'anni fa erano i conservatori a censurare l'arte. Come le fotografie sadomaso e gay di Mapplethorpe. Arte “degenerata” fu chiamata, con richiami agli anni Trenta. Oggi la censura viene praticata dai figli del Sessantotto evocando un altro tipo di “rispetto”. Di questo passo, censureranno Diana e Atteone di Tiziano e le Demoiselles avignonesi di Picasso? E perché non dirsi d'accordo con il presidente iraniano Rohani, la cui vista dei nudi fu protetta ai Musei capitolini di Roma in omaggio alla legge islamica? Ora vige la sharia postmoderna.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.