(foto LaPresse)

Il gretismo stanco

Umberto Minopoli

Le richieste irrealizzabili di climatisti e ambientalisti segnano il passo. Serve un bagno di realismo

Sul clima e sulle politiche dei governi gli ambientalisti dovrebbero seriamente interrogarsi: si rischia di finire in un vicolo cieco. E non per inazione degli esecutivi. Semmai l’opposto: per insostenibilità delle politiche adottate. Il movimento di protesta, che si è ispirato a Greta Thunberg, ha registrato un successo enorme di mobilitazione e di opinione. Come mai prima, in tempi rapidissimi, è riuscito ad attivare i policy maker. Tutti i maggiori organismi mondiali, dall’Onu, alla Commissione europea, passando per i governi, si attivano alla predisposizione del cosiddetto Green New Deal. E gli esecutivi, di qualunque colore, si affannano a tradurre le istanze del movimento in politiche pubbliche e provvedimenti green. Un enorme successo, indubbiamente. Eppure l’impressione è che si stia entrando in una fase di stanca e di décalage della mobilitazione. E non solo per la difficoltà enorme a fare accettare politiche antiemissive hard ai paesi in via di sviluppo o per i costi globali insostenibili di tali politiche. Anche per i governi occidentali si manifesta una palese difficoltà interna: è davvero difficile tradurre in politiche concrete, quantificabili e sostenibili le istanze climatiste. Specie per un motivo: i tempi necessari per ottenere dei risultati percepibili della transizione energetica e dei consumi sostenibili sono lunghi, di svariati decenni. Ma, intanto, le misure in via di adozione (carbon tax, plastic tax, penalizzazione dei consumi ambientalmente “insostenibili”) pesano su interessi diffusi, incidono in modo socialmente non egualitario, sconvolgono brutalmente stili di vita consolidati e modelli di comportamento popolari.

 

Il movimento dei gilet gialli (con le retromarce del governo Macron) è stato un segnale: la popolarità della denuncia climatista può entrare in contraddizione con l’impopolarità delle politiche attuative del green deal. È un grande warning per i governi. Che fare? Anzitutto il Green new deal dovrebbe liberarsi dal catastrofismo delle “date”. Avere costretto la “transizione energetica” entro la gabbia del 2050, presunta data ultimativa per la “sopravvivenza” del pianeta e del dimezzamento del contributo delle fonti fossili (gas e petrolio) entro i prossimi 10 anni, è irrealistico e penalizzante per la crescita. Gli obiettivi antiemissivi di CO2 saranno, con questa tempistica, tutti mancati. L’unica strada virtuosa sarebbe una transizione soft alla decarbonizzazione, senza l’ansia e la ghigliottina delle date. Più che penalizzare le fonti fossili e convenzionali si dovrebbe puntare sulla tecnologia per abbatterne le emissioni (tecniche di sequestro della CO2 prodotta, ambientalizzazione di tutto il ciclo di estrazione, trasporto e trasformazione di gas e petrolio, ecc). E utilizzare al meglio le fonti totally no-emission come il nucleare. Le politiche climatiche si dimostreranno una bolla di decrescita se non fanno un efficace bagno di realismo e sostenibilità economica e sociale.

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