Foto LaPresse

A Davos l'ambiente è il pretesto per demonizzare il capitalismo

Mariarosaria Marchesano

Fonti fossili da un lato e rinnovabili dall’altro, i rischi di una transizione energetica da 10 trilioni di dollari

Milano. Un “muro” di 10 trilioni di dollari divide il mondo tra come lo vorrebbe Greta Thunberg e come è oggi. E’ il totale dei capitali che a livello globale risulta investito in aziende da fonti fossili e che potrebbe essere reindirizzato verso quelle da fonti rinnovabili provocando una guerra di prezzi.

 

L’enorme cifra investita a livello globale in imprese da fonti fossili è, secondo un’analisi di Ubs, “alla ricerca di una casa” ora che le crescenti restrizioni alla carbon economy potrebbero provocare un travaso repentino di risorse verso un’economia pulita e da fonti rinnovabili. E questo può comportare il rischio – dice Ubs - di una guerra dei prezzi tra due mondi per la conquista e il mantenimento di spazi di mercato che coinvolgerà in pieno le utilities europee. Uno scenario considerato critico dalla ricerca della banca d’affari svizzera, che è una delle rare in circolazione a sollevare qualche dubbio sugli effetti economici del climate change nei giorni in cui il tema è centrale al Forum di Davos.

 

Al tavolo dei grandi, però, l’ambiente sembra più il pretesto per favorire una riflessione sulla necessità di un nuovo capitalismo, piuttosto che cercare di capire come affrontare i rischi e i costi di una transizione energetica accelerata dalle proteste di piazza. Il “muro” di 10 trilioni di dollari di capitali investiti nelle energie fossili, di cui il mondo ha bisogno per mantenere gli attuali livelli di ricchezza, potrebbe, infatti, sgretolarsi se non ci si pone il problema di come gestire il passaggio a un’economia pulita.

 

Che cosa accadrà nel momento in cui le imprese della carbon economy cominceranno a ricevere i downgrade delle agenzie di rating o si vedranno rifiutati i finanziamenti bancari o, ancora, non troveranno più investitori istituzionali disponibili a sostenerle? Potrebbero esserci disinvestimenti, perdite di posti di lavoro, chiusura di aziende. Il rischio è tutt'altro che aleatorio ora che un gruppo di pressione di livello mondiale come Climate Action, a cui hanno aderito circa 400 fondi d'investimento, è riuscito ad arruolare anche un colosso come Blackrock portando a 41 miliardi la potenza finanziaria di cui questi operatori dispongono per reindirizzare i capitali su aziende “sostenibili”. Se si mette in moto un travaso di capitali verso la protezione dell’ambiente, che il New Green Deal della Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen potrebbe favorire allentando le regole sulla spesa pubblica, sicuramente il pianeta ne beneficerà ma andrebbe chiarito un punto centrale: quanta parte dei 10 trilioni di dollari in cerca di una casa, come dice Ubs, potranno essere effettivamente assorbiti dal settore delle rinnovabili? E quale sarà l’impatto sulle aziende da fonti fossili? La risposta è semplice: nessuno lo sa. “Alla fine potremo vedere le major di oil e gas che cercando di diventare anche major di wind e solar – spiega la ricerca – Se l’industria fossile inizia a reindirizzare questo investimento verso l’energia pulita, potremo vedere un prolungato periodo di intensa concorrenza tra questi due mondi”.

 

Alla fine la sfida del 2020 sarà come portare la transizione verso l’energia pulita sulla buona strada, visto che nel 2019 il mondo si è svegliato sotto l’emergenza climatica come se fosse un bombardamento e la sta affrontando come tale. L'aspetto più sorprendente di tutta la vicenda è l’accelerazione che i grandi investitori globali hanno dato al cambiamento della loro strategia. Keith Skeoch del gruppo finanziario Aberdeen dice che guardando ai dibattiti e alle discussioni in programma questa settimana al World Economic Forum, “è chiaro che dobbiamo fare i conti su un mondo sempre più diviso”. Ma se si tratta di scegliere da che parte stare, Skeoch non ha dubbi: “Dobbiamo essere tutti investitori responsabili, il che significa essere buoni garanti del capitale che gestiamo. Prendiamo il cambiamento climatico, è sempre più evidente che la devastazione fisica porterà anche rischi finanziari per molte aziende e industrie, come la riassicurazione, il settore immobiliare, la silvicoltura e l’energia.  Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la risposta globale si è ridotta a ciò che è strettamente necessario. E il recente summit di Madrid si è rivelato una grande delusione mettendo a nudo le profonde divisioni tra le nazioni”. Dove ci porterà tutto questo? “Dobbiamo sforzarci di realizzare una crescita sostenibile che vada a beneficio della società nel suo complesso. Quindi, anche se ci troviamo di fronte a novità inattese sulla guerra commerciale o a possibili correzioni di mercato, dobbiamo continuare a concentrarci sul fare la cosa giusta, per i clienti, le persone, gli azionisti e la società in cui operiamo”. Il punto di vista di Aberdeen riflette ormai quello della maggioranza di gestori e fondi pensione internazionali. Cioè del capitalismo 2.0 che è pronto a mollare quella che ormai considera la zavorra del fossile senza che nessuno cerchi di gestire i rischi di una transizione finanziaria senza rete.

Di più su questi argomenti: