Ursula von der Leyen (LaPresse)

Come evitare che l'European Green Deal sia solo un elenco di buoni propositi

Rivista Energia

Il “patto verde” può rappresentare una straordinaria occasione di crescita oppure rivelarsi l'ennesima lista di intenti roboanti e inefficaci. Dipenderà da come verranno declinati strumenti, tempi e tecnologie

di Giuseppe Zollino, professore di Tecnica ed Economia dell’Energia, dipartimento di Ingegneria industriale dell’università di Padova

dal sito rivistaenergia.it


Difficile dissentire in linea di principio sugli ambiziosi obiettivi dello European Green Deal. Ma la vera discussione è sul “come” raggiungerli. Da questo dipenderà la sostenibilità economica e dunque la fattibilità del progetto. Per quanto ne sappiamo ora, il Green Deal può rappresentare una straordinaria occasione di crescita virtuosa o rivelarsi un ennesimo elenco di obiettivi roboanti e inefficaci. Se imboccherà l’una o l’altra strada dipenderà da come verranno declinati gli strumenti, i tempi e le tecnologie.


   

Da quando l’11 dicembre scorso è stato presentato alla stampa, sullo European Green Deal vanno addensandosi crescenti aspettative, piuttosto prevalenti sulle difficoltà del percorso delineato, che pure la Commissione Europea riconosce già in prima pagina del suo sito, dove scrive: “diventare il primo continente a impatto climatico zero costituisce contemporaneamente la sfida e l’opportunità più grandi del nostro tempo”.

  

Ad oggi, del Green Deal sono state pubblicate due comunicazioni ed una proposta di regolamento.

 

Nella prima comunicazione viene presentato il “patto verde”, per “trasformare l’Unione Europea in una società equa e prospera, con una economia moderna, competitiva ed efficiente nell’uso delle risorse, con emissioni di gas a effetto serra azzerate entro il 2050” insieme con una “iniziale tabella di marcia delle politiche e misure necessarie” a raggiungere tutti questi nobili obiettivi.

  

Per raggiungere i nuovi obiettivi al 2030 serviranno ben più di 500 miliardi di euro all’anno

Nella seconda comunicazione si affronta il tema degli investimenti necessari: solo per gli obiettivi intermedi al 2030 (che il Green Deal fissa ancora più ambiziosi di quelli indicati dalla Commissione a giugno 2019: per esempio, ridurre del 55% le emissioni di CO2, invece che del 40%, com’era appena 6 mesi prima) non sarebbero più sufficienti – scrive la Commissione – i 500 miliardi di euro all’anno stimati a giugno 2019 (5.000 miliardi in tutto entro il 2030), ma occorrerebbero “additional investments”, per il momento non quantificati. Per questo la Commissione è pronta a “mobilitare il 25% del budget UE”, ovvero meno di 40 miliardi all’anno.

  


Per mitigare gli effetti negativi sull’economia dei cambi radicali richiesti dal Green Deal, viene da ultimo proposto un regolamento per l’istituzione di un Just Transition Fund, di poco più di 1 miliardo all’anno.

  

A parte l’entità assai modesta del fondo, ha già destato reazioni contrastanti l’articolo 5 del regolamento che vieta l’impiego del fondo per qualsiasi tipo di supporto a progetti riferibili ai combustibili fossili (e ci può stare, anche se si equiparano carbone e metano, che per esempio nella produzione di energia elettrica emettono CO2 in misura uno il doppio dell’altro) come al decommissioning ed alla costruzione di impianti nucleari (e questo è davvero tecnicamente ingiustificabile, visto che i 124 reattori oggi in servizio in 14 paesi membri producono il 25% dell’energia elettrica dell’Unione Europea, senza emissione di CO2 e la gran parte di essi entro il 2030 giungeranno a fine vita).

  

A parte i target più ambiziosi, il Green Deal non contiene grandi elementi di novità rispetto al percorso energetico-ambientale intrapreso dall’UE negli ultimo ventennio

Va comunque sottolineato che sugli ambiziosi obiettivi del Green Deal in principio è davvero difficile dissentire. Chi potrebbe essere contrario ad azzerare le emissioni di gas serra nel più breve tempo possibile, in tutti i settori dell’economia, dalla generazione di energia elettrica, a tutta l’industria, all’agricoltura, alle autovetture, autobus, aerei, navi, garantendo la biodiversità e l’uso sostenibile delle risorse naturali, senza compromettere la crescita economica, anzi incrementandola, aumentando così il benessere dei cittadini europei? La vera discussione, che c’è da attendersi sarà molto accesa nei prossimi mesi, è sul “come”: strumenti, tempi, e soprattutto tecnologie. Perché è dal “come” che dipenderà la sostenibilità economica e dunque la fattibilità del progetto.

   

E poiché è prevedibile che da più parti proprio sulla fattibilità si leveranno dubbi, è giusto chiedersi innanzitutto quale potrebbe essere l’impatto del Green Deal europeo sulla lotta ai cambiamenti climatici. È noto, infatti, che oggi le emissioni UE di CO2 sono poco più del 9% del totale mondiale ed il contributo previsto al 2050 è del 6%. Del resto, la stessa comunicazione della Commissione ci ricorda che “le cause del cambio climatico sono globali” e per questo “il Green Deal non potrà essere realizzato se l’Europa sarà la sola ad agire” ma aggiunge – e questo è un passaggio cruciale – che “l’Europa può usare la sua influenza, esperienza e risorse finanziarie per mobilitare altri paesi” e dunque “intende continuare a guidare gli sforzi internazionali contro il cambio climatico”.

 

Dopo 20 anni di politiche energetiche e climatiche, quanto efficace si può dire sia stato il contagio europeo nelle scelte degli altri paesi?

Tuttavia, a ben guardare, il Green Deal proprio così nuovo non è. È nuova la quota dell’asticella, sempre più alta, ma lo schema si inserisce perfettamente nella sequenza più che ventennale delle politiche energia clima dell’UE. Anzi, alcuni passaggi sono quasi uguali. Già nel 2000, infatti, il Programma Europeo per il Cambiamento Climatico spiegava che “l’Unione Europea è impegnata da tempo a livello internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici” e che “sente il dovere di essere d’esempio con politiche e misure dedicate”.

 

Vent’anni dopo, quanto efficace si può dire sia stato il contagio delle buone politiche europee che si sono susseguite a ritmi piuttosto sostenuti? Le emissioni UE di CO2 da combustibili fossili erano 3,7 miliardi di tonnellate nel 2000 ed oggi sono 3,1 miliardi: 0,6 miliardi in meno. Nel resto del mondo, però, nel 2000 erano 19,5 miliardi di tonnellate ed oggi sono più di 30: un incremento quasi 18 volte superiore alla riduzione conseguita in UE; riduzione che dunque non ha avuto di fatto alcun effetto sul clima.

 

Per di più di questi 11 miliardi di tonnellate aggiuntive non sono stati responsabili Paesi già sviluppati. Infatti, dal 2000 ad oggi, anche gli USA hanno ridotto le emissioni di CO2 del 16% circa (come l’UE; in gran parte grazie al salto tecnologico dello shale gas che ha sostituito una grossa quota di carbone nella generazione elettrica) ed in Giappone e Canada sono rimaste pressoché invariate.

 

Esse sono invece cresciute di 6,2 miliardi di tonnellate in Cina (+200%), di 1,3 miliardi in India (+150%), di 0,6 miliardi in Africa, ecc. Tutte in Paesi che nello stesso periodo sono cresciuti molto (PIL +350% in Cina, +250% in India) o ancora troppo poco (+100% in Africa); ma soprattutto che, nonostante gli aumenti assoluti, hanno ancora consumi di energia pro capite ben inferiori a quelli dei paesi ricchi (2,2 tonnellate di petrolio equivalente in Cina, 0,7 in India e in Africa, contro 3,3 dell’UE, 3,5 del Giappone, 7 degli USA, 8 del Canada). 

 

E allora, ribadito che tutto quanto proposto dal Green Deal per il contrasto ai cambiamenti climatici è condivisibile, che sarebbe indispensabile venisse conseguito a livello globale e che tuttavia, alla luce delle passate esperienze, è giusto dubitare che ciò avvenga, che fare?

 

Prima di tutto, prendiamo atto delle conclusioni dei vari rapporti dell’IPCC, secondo i quali il clima cambia prevalentemente per effetto delle emissioni antropiche di gas serra e che i combustibili fossili (tra combustione ed emissione diretta di metano) sono responsabili del 60% di esse. La loro sostituzione con altre fonti, in particolare rinnovabili e nucleare, che non emettono CO2, è pertanto indispensabile, ma da sola non porterà ad emissioni zero, senza interventi sull’industria, la zootecnia, ecc, come correttamente indica la proposta del Green Deal.

  

Che fare? Bisogna implementare e diffondere le tecnologie già mature e nel frattempo svilupparne di nuove, facilitando gli investimenti dal punto di vista normativo e senza penalizzare la legittima aspirazione al benessere di una larga parte della popolazione mondiale

E restando al settore dell’energia, visto che fissare obiettivi vincolanti, per quanto ambiziosi, qua e là in qualche Paese del mondo o in tutta l’Unione Europea non avrà alcun effetto sul clima, si può dedurre che la sfida ardua ma ineludibile della riduzione delle emissioni climalteranti è prima di tutto tecnologica e di accettabilità sociale. Solo se disporremo di tecnologie energetiche CO2-free economicamente competitive e saremo in grado di creare le condizioni per la loro accettabilità e progressiva diffusione, potremo vincerla.

  

Già oggi ne abbiamo diverse che consentono l’approvvigionamento energetico in modo economicamente competitivo; ed ancor più ne avremo in futuro, se investiremo abbastanza per farne avanzare di nuove lungo la scala della maturità tecnologica. In questa fase, correttamente definita di transizione energetica, è perciò indispensabile favorire un approccio virtuoso, che, da una parte, faciliti dal punto di vista normativo ed indirizzi gli investimenti per la diffusione ed integrazione ottimale e progressiva di tutte le tecnologie abilitanti già ora competitive e dall’altra promuova lo sviluppo e la diffusione di nuovi prodotti e processi che allarghino la platea degli interventi economicamente sostenibili, favorendo in tal modo nuove filiere industriali e la crescita economica dell’Unione Europea.

  

In definitiva, implementare e diffondere le tecnologie abilitanti già mature e svilupparne di nuove, in modo che divengano economicamente competitive e disponibili a livello globale, è l’unica via per combattere davvero il cambio climatico, senza penalizzare la legittima aspirazione al benessere di una larga parte della popolazione mondiale; al contrario, fissare sempre più ambiziosi e roboanti obiettivi europei, a 10 o 30 anni che siano, anche quando fossimo in grado di raggiungerli – abbiamo già visto – non risolverebbe il problema.

   

Le due comunicazioni e la proposta di regolamento dello European Green Deal sono reperibili qui

 

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