Un operaio in una fabbrica di taxi a Londra (The London Taxi Company/PA Wire)

Il Foglio Innovazione

Le aziende che fanno innovazione meglio delle altre hanno un potere speciale: si chiama “reskilling”

Agostino Santoni

Gli investimenti nella formazione dei lavoratori alle nuove tecnologie spesso languono, ma sono essenziali per rendere industria e servizi più resistenti nei confronti della disruption. Come fare

Se c’è un terreno in cui la complessità dell’evoluzione tecnologica si manifesta in tutti i suoi aspetti, questo è il lavoro; qui emerge con più forza, in particolare, il conflitto tra la dimensione individuale e la traiettoria dello sviluppo economico, con effetti esacerbati dalla rapidità dell’innovazione. Prendiamo, ad esempio, quello che sta accadendo sul tema dell’intelligenza artificiale: una tecnologia che produce indubbi vantaggi nella conversazione collettiva è associata spesso a visioni apocalittiche di sostituzione tecnologica per decine di milioni di lavoratori, o al contrario è trattata in modo iperottimista, trascurando temi quali la trasparenza, la sicurezza, la fiducia e l’inclusività di un mondo sempre più affidato agli algoritmi – e a chi li crea. In questa confusione, che ricorre spesso quando si affrontano le innovazioni digitali, si perde di vista il punto fondamentale: la tecnologia, qualunque tecnologia, è governata dall’uomo. E’ nell’uomo e nelle sue capacità, quindi, che troviamo l’opportunità di ottenere dalla digitalizzazione risultati positivi.

 

Un mondo ibrido

Se guardiamo a come si lavora oggi, di fatto non esistono più ruoli in cui non serva una competenza digitale per quanto minima. La tecnologia come conoscenza esclusivamente specialistica non esiste più e nascono nuove professionalità ibride. Quando – per usare sempre l’’esempio dell’AI – un bot o un assistente virtuale entrano nelle procedure lavorative di tutti i giorni e nei processi decisionali, è avvenuto un salto di qualità che deve essere riconosciuto dalle imprese, dalla pubblica amministrazione e anche dalle stesse aziende tecnologiche, per mettere in condizione le persone di coglierne le potenzialità.
Si rischia, altrimenti, che le persone si ritrovino a usare tecnologie che non hanno scelto, solo “perché ci sono”, senza sfruttarle davvero. Per questo è urgente – e ha senso per il business – puntare su un percorso di riqualificazione digitale della forza lavoro: un percorso continuo, che preveda di aggiornare le competenze in modo ricorrente, proprio come si aggiornano i sistemi operativi e le applicazioni sui nostri smartphone.

 


Investire in formazione digitale, oltre che in tecnologie, è la via maestra per affrontare i punti deboli che rallentano la crescita


 

Il ritorno sull’investimento delle competenze digitali

Naturalmente, anche se in questo contesto non ne parliamo, il ruolo del sistema educativo nell’accogliere la trasformazione digitale è fondamentale. Il sistema educativo, però, ha tempi lunghi: lavora per quel futuro in cui, come ha evidenziato il World Economic Forum nel rapporto Future of Jobs del 2018, il 65 per cento dei bambini che frequentano in questi anni la scuola primaria farà lavori che ancora non esistono. Dato che la trasformazione è già qui, bisogna agire in tempi immediati: abbiamo bisogno di fare una “rivoluzione del reskilling” – come l’ha definita sempre il Wef – e capire che investire in formazione digitale, oltre che in tecnologie, è la via maestra per affrontare i punti deboli che rallentano la nostra crescita, partire dal tema della produttività del lavoro che ristagna.

 

C’è uno studio dell’Ocse (“Productivity Growth in the Digital Age”, 2019) in cui si evidenzia che i vantaggi delle tecnologie digitali finora sono stati colti dalle imprese che già sono di per sé più produttive. Un divario importante tra aziende strutturate e realtà più piccole, inoltre, perpetua un ritardo dannoso. Lo studio mostra che se i paesi che hanno le performance peggiori nell’adozione di tecnologie digitali nelle imprese raggiungessero il livello di quelli che oggi sono i migliori, ci sarebbero effetti molto rilevanti. Riguardo agli strumenti da mettere in campo non c’è una ricetta univoca, ma in media tra tutti i fattori l’aggiornamento delle competenze tecniche e manageriali è quello che può creare maggiore impatto. Nelle stime fatte per l’Italia, si tratta di un impatto pari al 6 per cento nell’arco di tre anni sulla produttività aziendale aggregata. Agire in un paese come il nostro, che sconta difficoltà anche sulle competenze digitali di base, non è facile: ma è urgente, dato che tornando a dati Ocse (Skills Outlook 2019), il 13,8 per cento dei nostri lavoratori oggi ricopre posizioni definite “ad alto rischio di automazione”. Questi lavoratori avrebbero bisogno di fino a un anno di formazione per passare ad altro ruolo meno esposto al rischio, ma solo il 30 per cento degli adulti italiani – contro media Ocse del 42 per cento – è stato coinvolto in una qualsiasi attività di formazione negli ultimi 12 mesi.

 

Che fare, quindi? Attivarsi per creare opportunità di apprendimento rapide, flessibili, immediate – ricordando che la tecnologia stessa può aiutarci anche a risolvere i problemi che pone, permettendo ad esempio di creare piattaforme online e nuovi modelli di formazione utili per agire su larga scala. Senza contare che abbiamo dalla nostra anche il fatto che le nuove soluzioni digitali “nascondono” sempre più la complessità, dando accesso in modo assai più semplice a funzionalità impensabili in passato.
E’ una sfida enorme: formare costa. Come in altri campi, distribuire l’impegno e i costi è la strada vincente. Il Wef ha stimato che negli Stati Uniti il costo per riqualificare tutti i lavoratori dovuto alla diffusione delle tecnologie di automazione sarebbe di 34 miliardi di dollari, e il costo ricadrebbe per l’86 per cento sul governo. Però, con una collaborazione tra stakeholder pubblici e privati, sarebbe possibile che le aziende riescano a formare fino al 45 per cento del personale interessato in modo profittevole. Il punto chiave è sempre lo stesso: fare sistema. Solo se tutti credono indispensabile il reskilling tecnologico, che include anche le competenze soft che servono oggi per lavorare in un contesto digitale, si può accelerare e “industrializzare” su larga scala il processo di diffusione di questi nuovi saperi.

 


Soltanto il 7 per cento degli incentivi di Industria 4.0 è stato affidato alla formazione. Ma ci sono eccezioni eccellenti


 

Il cacciavite e il tablet

Per mettere a terra tutto questo ragionamento con un esempio, possiamo considerare il percorso avviato in Italia in merito all’Industria 4.0: una trasformazione di vitale importanza per tutte le nostre imprese e specie per settori in cui competiamo come eccellenza mondiale – come la costruzione di macchinari industriali.

 

Tra luci e ombre, il Piano lanciato nel 2017, con le sue successive evoluzioni, ha puntato ad accelerare in parallelo innovazione tecnologica e competenze, incentivando l’aspetto della formazione aziendale senza trascurare il raccordo con il sistema educativo – in particolare attraverso il rafforzamento della rete della formazione post-secondaria specializzata con gli Its (Istituti Tecnici Superiori) – e stimolando l’aggregazione di ecosistemi di innovazione sul territorio con i Competence Center.
Gli elementi del sistema, quindi, ci sono. Anche la consapevolezza c’è, dato che – come rilevato dall’Osservatorio Industria 4.0 della School of Management del Politecnico di Milano – l’80 per cento del campione di imprese interpellato considera Industria 4.0 una rivoluzione di valore strategico. Perfino gli investimenti ci sono, in crescita del 35 per cento nel 2018 sulla scorta degli incentivi. Ci si è concentrati sulle tecnologie abilitanti, ma alla formazione e consulenza è stato assegnato il 7 per cento appena del totale; inoltre, solo nel 6,8 per cento dei casi reali analizzati dall’osservatorio la funzione Risorse Umane è stata coinvolta in tutte le fasi dei progetti di trasformazione digitale.

 

Questa difficoltà persistente a portare sulle persone il baricentro dell’innovazione è una cattiva abitudine, ma non un ostacolo insormontabile. Lo dimostrano le tante aziende che ho incontrato in questi anni e con cui abbiamo lavorato per la trasformazione 4.0 con successo. Tra le linee produttive di queste aziende si aggira un nuovo tipo di operatore che usa contemporaneamente strumenti nuovi e antichi: “Cacciavite alla cintura e tablet in mano”, per così dire, impegnato a controllare e gestire i macchinari e a interagire con essi mediante software che mettono a disposizione dati, informazioni arricchite, funzionalità innovative. Nei reparti di sviluppo si lavora su “gemelli digitali” di interi impianti sui quali testare, progettare, affinare funzionalità, formare gli addetti. I direttori di produzione prendono decisioni basate su dati provenienti da diversi sistemi, connessi tra loro grazie a reti industriali sicure e analizzati, potenziando la capacità di creare efficienza e rispondere alle richieste di flessibilità e di personalizzazione provenienti dal mercato.

 

Piccole o grandi, attive nel nostro made in Italy di design ed eccellenza così come nell’industria pesante o nelle infrastrutture, tutte queste realtà hanno in comune un aspetto del loro percorso: nei loro bilanci, la linea di spesa per la formazione è sempre presente e all’attivo. Non si tirano indietro quando c’è da lavorare per creare le competenze che mancano; si inseriscono negli ecosistemi locali; vedono la tecnologia come uno strumento di efficienza e profitto, ma soprattutto come mezzo per valorizzare i talenti e le capacità del loro capitale più importante: le persone. Queste aziende hanno cambiato abitudini. Hanno dimostrato che si può fare.

 


Agostino Santoni dal dicembre 2012 è l’Amministratore Delegato di Cisco Italia

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