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Brevetti e vaccini

Vincenzo Denicolò

Chiedere licenze obbligatorie è una falsa soluzione. La proprietà intellettuale non è un ostacolo alla produzione di vaccini anti Covid

Mentre Israele, Regno Unito e Stati Uniti stanno cominciando a raccogliere i frutti dell’immunizzazione di una quota consistente della loro popolazione, la campagna vaccinale nell’Ue segna il passo. La Commissione europea ha voluto accentrare l’acquisto dei vaccini, ma alla prova dei fatti si è dimostrata incapace di procurarseli. Di fronte a questo fallimento, diversi politici europei hanno tirato in ballo i brevetti, ventilando la possibilità di ricorrere a licenze obbligatorie. Anche in Italia diverse persone e associazioni hanno avanzato proposte simili. Anche se animate dalle migliori intenzioni, queste proposte sono sbagliate. In questo caso i brevetti non c’entrano. Il motivo è semplice: se è vero che in astratto i brevetti possono fare aumentare i prezzi dei farmaci fino a renderli inaccessibili ai più, nel caso specifico tutto si può dire tranne che i vaccini anti Covid siano cari.

 

Come termine di paragone, prendiamo il caso del Sofosbuvir, il primo di una serie di farmaci innovativi che oggi consentono di guarire dall’epatite C – una malattia in passato difficile da trattare e quindi destinata a cronicizzare fino a degenerare in cirrosi epatica o tumore. Nel 2012, il primo anno di commercializzazione, il prezzo della cura era superiore a 80 mila dollari, a fronte di un costo di produzione stimato in poco più di 100 dollari. Per fare un altro esempio, prima che scadessero i brevetti sui farmaci antiretrovirali usati nella cura dell’Aids, il prezzo del trattamento si aggirava sui 10 mila dollari all’anno (a differenza dei farmaci per l’epatite, per cui un solo trattamento è risolutivo, quelli per l’Aids devono essere assunti per tutta la vita). Il costo di produzione non superava le poche centinaia di dollari. Con prezzi così gonfiati, l’accesso ai farmaci diventa problematico e la licenza obbligatoria dei brevetti una possibilità da considerare seriamente.

 

Prezzi bassi ed eccesso di domanda

Ma se guardiamo invece ai prezzi dei vaccini anti Covid, il quadro è totalmente diverso. A quanto è dato di sapere, la Commissione europea ha prenotato più di 2 miliardi di dosi a un prezzo medio di circa 10 euro a dose, per una spesa totale prevista di 23 miliardi. Secondo le stime di Bloomberg, questo è più o meno il costo per l’economia Ue di due settimane del lockdown “leggero” attualmente in vigore. In altri termini, l’intera spesa si ripagherebbe nel giro di due sole settimane, anche senza considerare il risparmio di vite umane. Probabilmente spenderemo di più per somministrare i vaccini che per acquistarli. La vaccinazione tramite i medici di famiglia costerà al contribuente più di 6 euro a dose, cioè più o meno quanto il vaccino Johnson & Johnson e il doppio dell’AstraZeneca. Per altri vaccini il prezzo di acquisto è più elevato, ma lo è anche il costo di somministrazione. E’ quindi del tutto evidente che qui non abbiamo un problema di prezzi eccessivi.

 

Le difficoltà di approvvigionamento semmai segnalano che siamo in presenza di quello che gli economisti chiamano “eccesso di domanda”, che è un indicatore di un prezzo troppo basso e non troppo alto. I sostenitori delle licenze obbligatorie ribattono che anche se il prezzo non è un problema, resta il fatto che i brevetti ostacolano l’aumento della produzione, e le licenze possono servire a rimuovere questo ostacolo. Sia la diagnosi che la prognosi sono però discutibili. Per quanto riguarda la diagnosi, sfugge quale possa essere oggi l’interesse delle compagnie farmaceutiche a contrarre deliberatamente la produzione. Si capirebbe se la minor produzione si traducesse in un prezzo più alto, ma come abbiamo visto non è questo il caso. Per quanto riguarda la prognosi, è evidente che le licenze obbligatorie non possono risolvere il problema nell’immediato. Nella migliore delle ipotesi, adattare un impianto alla produzione del vaccino potrebbe richiedere 4/6 mesi di tempo. E questo se l’operazione fosse effettuata con l’assistenza di chi, avendo avviato la produzione da qualche tempo, ha già acquisito una certa esperienza. Altrimenti i tempi si allungherebbero ulteriormente. Ma se i titolari dei brevetti venissero costretti a concederli in licenza, difficilmente vorrebbero condividere anche il know-how, che non è coperto da brevetti e quindi può essere tenuto segreto. E’ come se qualcuno volesse offrire a ospiti di riguardo una nuova pietanza inventata da uno chef famoso. Se la cena è prevista tra due mesi, si potrebbe pensare di requisire la ricetta ed esercitarsi fino a raggiungere un risultato accettabile. Ma se la cena è stasera, forse conviene venire a patti con lo chef e farsi dare una mano.

 

Venire a patti con l’industria farmaceutica è precisamente quanto hanno fatto Israele, Regno Unito e Stati Uniti. A quanto pare, ora anche l’Unione Europea sta pensando di seguire questa strada. In effetti non c’è molto altro che possa essere fatto in questo momento, e sarebbe stato meglio farlo prima. Ma se allarghiamo l’orizzonte, un’alternativa è possibile. E non è la licenza obbligatoria dei brevetti, uno strumento che ha senso utilizzare solo in situazioni di emergenza.

 

  

 

Ripensare l’industria farmaceutica

L’alternativa è una riorganizzazione radicale dell’industria farmaceutica, che riduca drasticamente il ruolo delle imprese private nella scoperta dei nuovi farmaci. Proprio lo sviluppo dei vaccini anti Covid ci fa capire perché questo cambiamento sia necessario e al tempo stesso fattibile. E cominciamo col dire che in questa vicenda l’industria privata probabilmente ha dato il meglio di sé (anche grazie a un massiccio sostegno pubblico). All’inizio dell’epidemia nessuno avrebbe scommesso che saremmo stati in grado di creare vaccini sicuri e straordinariamente efficaci in meno di un anno. Quanto alle attuali difficoltà di approvvigionamento, forse è semplicemente impossibile produrre in poche settimane vaccini per l’intera umanità. Detto ciò, se guardiamo le cose con più attenzione emergono diversi spunti di riflessione.

 

Nella fase dell’invenzione, il contributo delle grandi compagnie farmaceutiche è stato secondario. Merck ha gettato la spugna e Sanofi è in grave ritardo. AstraZeneca e Pfizer sono subentrate solo quando i vaccini ideati dall’Università di Oxford e da BioNTech sono entrati nella fase dei test clinici e della produzione. I veri inventori di questi vaccini sono quindi un’università e una piccola impresa nata come costola della ricerca accademica (come anche Moderna). Il vaccino russo, tra i migliori fin qui sviluppati per efficacia e facilità di conservazione, è stato ottenuto da un istituto di ricerca, il Gamaleya, rimasto sotto controllo pubblico anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Al momento, l’unica grande impresa privata ad avere sviluppato dall’inizio alla fine un vaccino – che comunque non è arrivato per primo, né primeggia per efficacia – è Johnson & Johnson.

 

Le cose non stanno così solo per i vaccini. Lo sviluppo del sofosbuvir, per esempio, disegna un quadro per molti aspetti simile. Sempre più spesso, la fase più innovativa e creativa dello sviluppo di nuovi farmaci è condotta in università, istituti di ricerca pubblici, o spin-off creati da ricercatori provenienti da questo tipo di istituzioni. I giganti dell’industria farmaceutica entrano in gioco (attraverso acquisizioni, joint-venture o accordi di licenza) solo nella fase dei test clinici, dove le risorse da investire spesso superano le capacità finanziarie dei piccoli inventori. Ma i test clinici, oltre a essere spesso condotti in ospedali pubblici (anche se per conto di imprese private), sono minuziosamente guidati e controllati da agenzie pubbliche, come l’Fda e l’Ema.

 

  

 

Più ricerca pubblica di base

Se si prescinde dai vincoli finanziari, non è chiaro quale sia il vantaggio comparato delle imprese private in questa fase, che è più simile all’attività di ricerca pura che a quella commerciale. Tutto sommato, l’attuale organizzazione dell’industria farmaceutica è paradossale. La ricerca di base è in larga misura pubblica, la sperimentazione è regolamentata, supervisionata e valutata da agenzie pubbliche, e i sistemi sanitari pubblici sono tra i principali fruitori del prodotto finale. Nel mezzo, però, si collocano i colossi farmaceutici privati, che estorcono un pedaggio sproporzionato rispetto al loro effettivo contributo e poi in larga misura lo dissipano nella promozione commerciale dei loro prodotti. Per correggere queste distorsioni, si dovrebbe rafforzare il ruolo della ricerca di base nello sviluppo dei farmaci e quello delle istituzioni pubbliche nella sperimentazione clinica.

 

Per raggiungere il primo obiettivo, si dovrebbero abolire i brevetti sui farmaci, bloccando così l’emorragia di idee e ricercatori dall’accademia al settore privato, che oggi avviene attraverso una miriade di spinoff di vario tipo. Al tempo stesso, si dovrebbero creare incentivi affinché università e istituti di ricerca, in sana competizione tra di loro, estendano il raggio d’azione almeno fino al completamento della fase pre-clinica. Per quanto riguarda la sperimentazione clinica, si dovrebbe mettere in mano pubblica non solo la valutazione dei risultati ma anche la conduzione dei test. Rimarrebbe così all’industria privata solo la fase della produzione, dove a quel punto tutti i farmaci sarebbero generici.

 

Finché delegheremo lo sviluppo dei nuovi farmaci al mercato, dobbiamo giocare secondo le sue regole. Ma nel futuro potremmo svincolarci da questa logica facendo affidamento sulla ricerca accademica e sull’esperienza delle agenzie di regolamentazione. In larga misura, è da esse che già oggi dipendiamo per avere nuovi medicinali efficaci e sicuri; si tratta di allargarne le competenze.

 

Vincenzo Denicolò è economista all'Università di Bologna

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