Discriminazioni in base agli anticorpi

Eugenio Cau

Perché nessuno parla delle implicazioni etiche dei patentini di immunità?

Milano. In Italia si parla da settimane di distribuire ai cittadini dei “patentini di immunità” per rendere più efficiente la riapertura dopo il lockdown. L’idea è relativamente semplice: usare un test sierologico per capire chi si è già preso il Covid-19 e ha sviluppato gli anticorpi al coronavirus, e dunque distinguere chi è già immune e può uscire senza paura da chi invece è ancora a rischio e deve essere protetto e riguardato. I test sierologici, infatti, identificano nel sangue la presenza degli anticorpi al coronavirus, mentre i test diagnostici (i famosi tamponi) verificano chi è malato al momento del test. Il progetto si basa su molte incognite da chiarire: per esempio, non siamo ancora sicuri che essere guariti dalla malattia garantisca la piena immunità al coronavirus, né che questa immunità duri per sempre. I test sierologici, inoltre, sono ancora molto imprecisi, generano falsi negativi con percentuali molto alte, e ci vorrà tempo prima di creare un sierologico che abbia una sensibilità sufficiente.

  

Ma il piano sembra buono: ad avere il modo di capire chi è immunizzato e chi no può consentire di avere un criterio per riaprire le fabbriche in sicurezza e garantire le attività essenziali lasciando i rischi praticamente a zero. Per questo il governo italiano ha fatto un ordine all’azienda farmaceutica americana Abbott per quattro milioni di test sierologici che abbiano una sensibilità del 99 per cento e che siano disponibili entro la fine di maggio, mentre la Germania ne ha ordinati otto milioni alla svizzera Roche, tre milioni entro marzo e cinque successivamente.

 

La Germania, tuttavia, ha fatto un passo in più (come spesso è avvenuto in questi mesi di crisi sanitaria internazionale): il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, ha annunciato di aver chiesto un parere al Consiglio etico dello stato sull’utilizzo su larga scala dei test sierologici e, scrive Reuters, ha promesso che non prenderà iniziative legislative sui test fino a che il consiglio non darà il via libera.

  

Attribuire patentini di immunità, in effetti, significa creare una discriminazione sostanziale all’interno della società: da un lato ci saranno gli immunizzati che possono muoversi liberamente, possono incontrarsi tra di loro e possono andare a lavorare e sfamare la propria famiglia; dall’altro lato ci saranno i cittadini a rischio, che potrebbero essere sottoposti a restrizioni, potrebbero ricominciare a lavorare più tardi degli altri o vedersi soffiare il posto da qualcuno con il patentino d’immunità. Se un’azienda deve decidere tra assumere un lavoratore con gli anticorpi e uno senza, chi sceglie? Il grande discrimine tra le due categorie sarà la fortuna di essersi già ammalati, e di averla scampata. Non è così improbabile che, soprattutto tra le classi più povere e tra i più giovani, qualcuno usi dei sotterfugi per ottenere il patentino che gli consentirà di lavorare e di uscire liberamente e che magari cerchi attivamente di contagiarsi. E’ una possibilità che ha citato anche il ministro Spahn, che ha detto: “La domanda è cosa significa quando alcune persone sono colpite da restrizioni e altre no, questo riguarda le fondamenta di come funziona l’intera società”.

   

Il New York Times qualche giorno fa ha pubblicato un articolo di Kathryn Olivarius, professoressa di Storia a Stanford, che raccontava un caso interessante di “immunoprivilegio” nella New Orleans di inizio Ottocento, dove la febbre gialla era quasi endemica e dove i giovani immigrati si rotolavano nei letti dei malati morti di recente perché soltanto chi era sopravvissuto al morbo e veniva definito “acclimatato”, (l’antesignano del patentino di immunità) poteva trovare lavoro in città. Le assicurazioni costavano meno per gli “acclimatati” e gli schiavi neri “acclimatati” aumentavano di valore sul mercato. E la febbre gialla, allora, uccideva circa la metà dei malati, tra sofferenze atroci.

   

E’ chiaro che nel Ventunesimo secolo non arriveremo mai a questi eccessi. Ma la creazione di patentini di immunità, così come l’utilizzo generalizzato di test sierologici, rischia di trasformarsi in un elemento di discriminazione pericoloso. Come società dovremmo parlarne. La Germania lo sta facendo, e noi?

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.