(foto di Francesco Dalmazio Casini)

reportage

Viaggio tra i ricordi di Kharkiv

Francesco Dalmazio Casini

La città ha cacciato i russi e ora fa i conti con l’abbandono e le macerie. Tra strade desolate e palazzi distrutti gli abitanti si proteggono dai bombardamenti costanti di Mosca, sanno di essere sotto tiro, ma non temono il ritorno dell'esercito di Putin. Chi è rimasto ci racconta la battaglia che ha salvato la città

Kharkiv. Saltyvka è il sobborgo di Kharkiv che più di tutti è stato colpito dai bombardamenti russi. Una distesa di condomini sovietici che prima della guerra ospitava circa 300 mila persone. Oggi è un deserto dove restano ad abitare solo una manciata di famiglie e una moltitudine di gatti. Bombe, razzi e missili hanno trasformato buona parte degli edifici in cumuli di macerie. “Questo posto sarà demolito, è oltre ogni possibilità di recupero”, spiega al Foglio Mikhailo Tesliuk, assessore della giunta cittadina e aggiunge: “In molte case mancano acqua, gas ed elettricità, non ci si può più vivere”. Le autorità giudicano l’area talmente irrecuperabile che nessuno si è curato di togliere dal lato della strada un razzo inesploso, arrivato con l’ultima tornata di bombardamenti.

Da Saltyvka la linea di contatto si raggiunge con appena mezz’ora di macchina e quest’area è esposta non solo al tiro dei missili ma anche a quello dell’artiglieria. Dentro ai palazzi si trovano resti di vita quotidiana completamente anneriti: la rete di un materasso, un salvadanaio con ancora dentro delle monete, un frigorifero ridotto ad ammasso di lamiere. Mentre parla ogni tanto Mikhailo si interrompe per ascoltare le esplosioni che si sentono in sottofondo: “M777”, dice a un certo punto. In questo caso sono colpi in uscita da parte degli obici da 155mm donati dagli americani.

Dentro Kharkiv non c’è un’area “sicura” e le sirene dei bombardamenti suonano ogni notte, in alcuni casi anche due o tre volte.  In città hanno avuto luogo  una decina di attacchi nell’ultima settimana  e una persona è stata uccisa dalle schegge mentre aspettava l’autobus. Secondo i dati diffusi a giugno dalle autorità ucraine,  dall’inizio dell’invasione, sono  stati uccisi nella regione di Kharkiv  almeno 600 civili, un numero che negli ultimi due mesi non ha fatto che aumentare. Moltissimi edifici istituzionali, anche nel centro, sono stati distrutti dalle bombe. E’ il caso delle due università, ma anche dell’edificio dell’amministrazione regionale. “La sede della polizia è stata colpita con due missili Iskander, almeno cento persone sono morte”, spiega Mikhailo, che conferma l’uso di missili balistici – ben più potenti e letali dei missili da crociera – contro l’abitato. 

Cinque mesi di bombe hanno innescato un esodo. Prima della guerra quasi un milione e mezzo di persone abitavano a Kharkiv, ma ora ne restano meno della metà. Centinaia di migliaia di cittadini hanno cercato rifugio nell’ovest dell’Ucraina o nei paesi europei. Molto spesso – è il caso di Mikhailo e di molti altri – gli uomini restano, mentre spingono le famiglie ad andare dove si è più sicuri. Oggi Kharkiv è quasi una città fantasma: per le strade si incontrano pochissime persone e le case che non sono state abbandonate lo sembrano perché le finestre sono state coperte con il compensato per evitare alle schegge di entrare. Unico scampolo di normalità è lo Shevchenko City Garden, un grande parco nel centro cittadino che ospita lo zoo e il delfinario. Lontano da quelli che i russi potrebbero identificare come obiettivi strategici, c’è ancora chi si concede una passeggiata o un pranzo al ristorante. 

E’  una normalità precaria, appesa alle trincee dove le Forze armate dell’Ucraina tengono a bada i russi della Quattordicesima armata. “Per il momento non proveranno a entrare in città”. Mikhailo racconta al Foglio che i punti di ingresso per Kharkiv sono ben difesi. A maggio gli ucraini hanno ricacciato indietro i russi quasi fino alla frontiera. A quel punto una controffensiva di Mosca ha riguadagnato qualche chilometro, solo per mettere in sicurezza le linee di approvvigionamento che passano in territorio russo: “I russi non hanno la forza per entrare qui, quindi bombardano continuamente”, dice Mikhailo. Serve a fiaccare il morale dei soldati e a tenere la popolazione in uno stato costante di terrore, a ricordare che le forze di Mosca potrebbero da un momento all’altro tentare una nuova offensiva. 

Gli abitanti di Kharkiv ricordano bene che durante le prime ore dell’invasione l’esercito russo è stato a un passo dal prendere la città. La notte in cui scoppiò la guerra, sfruttando l’effetto sorpresa, le Forze armate russe si spinsero in profondità nell’abitato. E’ una storia che si trova raccontata su alcuni cartelli di fronte a quello che forse è l’edificio più famoso di Kharkiv, almeno all’estero: la Scuola 134, davanti alle cui rovine i ragazzi che la frequentavano hanno allestito un  ballo per la fine della scuola che ha fatto il giro del mondo.

L’edificio però non è stato distrutto dalle bombe, come tanti altri a Kharkiv. I russi sono arrivati col favore delle tenebre e dei sabotatori, nonostante la scuola si trovi a pochi passi dal centro. Poche ore dopo gli ucraini hanno ingaggiato una violenta battaglia per espellerli dalla città. E’ durante questi scontri che l’edificio è stato ridotto in macerie, ma gli ucraini sono riusciti nel loro scopo. Non è un caso se chi abita qui parla di quel giorno come “la battaglia che ha salvato Kharkiv”. Trai cartelli commemorativi esposti alla 134, uno in particolare illumina sulla crudezza di questo conflitto: “I russi sono venuti con le loro armi per uccidere i nostri figli, ma hanno incontrato i loro padri”. 

Il colpo di mano per occupare Kharkiv è stato un fallimento doloroso per Mosca. Non solo per la sua importanza strategica, ma anche per i trascorsi di questa città. Già capitale dell’Ucraina durante il periodo sovietico, fino al 1934, è sempre stata caratterizzata da una fortissima componente di popolazione russofona – interrogato su quale lingua bisogna impostare sul traduttore per farsi comprendere Mikhailo risponde “Siamo a Kharkov, meglio il russo” – e, fino a qualche anno fa, da un nutrito numero di filorussi. Dalle proteste di Euromaidan le simpatie per  Mosca sono molto diminuite, dopo che i manifestanti filorussi tentarono di occupare i centri istituzionali. Eppure qui come in altri luoghi tendenzialmente russofoni, l’esercito russo sperava di trovare un’accoglienza meno ostile. Invece dopo quattro giorni di combattimenti feroci, il 28 febbraio, si trovavano costretti a lasciare la città.
Il fronte al momento è stabile. I soldati restano per lo più nelle trincee mentre le artiglierie si scambiano colpi:  una fotografia che ricorda il primo conflitto mondiale, gli eserciti non tentano di avanzare se non per trascurabili guadagni territoriali. La differenza fondamentale è che mentre tiene in stallo il fronte, l’esercito russo resta a tiro della città e può esercitare pressione sul nemico colpendo gli obiettivi civili di Kharkiv – una leva che è preclusa, al contrario, alle forze dell’Ucraina. 

A Kharkiv tutti sanno che la guerra durerà a lungo. Sia Kyiv sia Mosca credono che la partita decisiva si giocherà altrove e nessuno dei contendenti sembra interessato (o ha la possibilità) a stravolgere i destini del fronte di nord-est. “Siamo preparati, gli attacchi andranno avanti almeno fino all’autunno, forse anche per tutto l’inverno”, conferma Mikhailo. I russi non hanno dato negli ultimi mesi segni di voler utilizzare una strategia diversa da questo bombardamento di logoramento a ciclo continuo. E’ il limbo in cui Kharkiv si trova da più di 150 giorni, che la sta facendo morire lentamente, un abitante alla volta.

Tutte le foto sono di Francesco Dalmazio Casini

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