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il reportage

Kyiv, vestita d'agosto, sente il respiro di guerra gelido come l'inverno

Kateryna Zarembo

Cosa vuol dire tornare a casa durante un conflitto, in una capitale che ha due volti e un solo scopo: vincere, nonostante tutto, contro l'invasore dell'Ucraina

Kyiv. Sono tornata a casa dopo quattro mesi all’estero e cinque mesi di separazione dalla mia città natale. All’estero arrivano francamente poche notizie su come vive Kyiv militarizzata. Le notizie dall’Ucraina riguardano principalmente la guerra e il fronte. Quando ho chiesto ai miei conoscenti e a mio marito, che è rimasto a Kyiv, ho ricevuto risposte vaghe, persino contraddittorie. Qualcuno mi diceva che Kyiv era quasi la stessa di prima. Qualcuno, al contrario, che l’atmosfera era triste e depressa. Mio marito ripeteva misteriosamente: “Verrai e vedrai tutto da sola”.

 

Ho contato i giorni fino al mio arrivo, li ho cancellati sul calendario. Volevo baciare tutte le guardie di frontiera. Volevo urlare, gridare: “Sono in Ucraina! Sono a casa!”. Avevo deciso che al mio ritorno sarei tornata a casa solo per passare la notte: voglio essere ispirata, fare passeggiate, riempirmi della città, che è il mio luogo di forza, il luogo della mia nascita, infanzia, giovinezza e felice vita adulta. Ed eccomi qui. 

Se non leggi le notizie, a prima vista, può sembrare che la guerra non ci sia. Con la mia immaginazione avevo disegnato strade deserte, lungo le quali incontrare qua e là solo anziani (perché tutti gli uomini sono al fronte) e donne (che per qualche motivo non se ne sono andate). Non è vero: Kyiv è piena di uomini, donne e bambini di tutte le età. Qualcuno è andato davvero al fronte, a ovest dell’Ucraina o all’estero, qualcuno, al contrario, è arrivato: siano essi cittadini che sono tornati, o residenti delle città minacciate o dei territori occupati, come da Mykolaïv, Kherson o Kharkiv. C’è un po’ di gente per strada, non troppa, ma è una situazione abbastanza tipica in agosto e durante le festività, probabilmente ancor più che a Roma durante Ferragosto.

 

Piuttosto, all’inizio può sembrare che stia accadendo qualcosa di simile a una crisi finanziaria. I negozi e le caffetterie chiusi attirano l’attenzione: le vetrine sono intonacate sotto gli annunci “Affitasi”, le serrande sono abbassate, attraverso le vetrine spente si vedono le sedie capovolte sui tavoli. Non sono tutti chiusi, a occhio, se ne contano uno ogni tre. In altri negozi, invece, c’è rumore e casino, e anche code. E, come al solito, molte auto costose.


La cultura hipster per cui Kyiv era famosa sembra essere diventata ancora più ovvia e prominente. I giovani uomini e donne con gli occhiali e le magliette bianche o nere probabilmente non sono più numerosi di quelli che c’erano prima dell’invasione su vasta scala, ma in qualche modo sono diventati più evidenti sullo sfondo del fatto che a Kyiv, come qualcuno ha riassunto sui social network, ora non si indossano  cravatte. In generale, ci sono così tanti giovani nel centro di Kyiv che verrebbe da pensare che questa sia una città di ventenni e trentenni.

 

Molte persone suonano strumenti musicali per le strade o ballano sulle note di un brano  da un lettore portatile. Insolitamente per questo periodo, i teatri sono aperti, i manifesti annunciano il programma per agosto. Sulle strade è aumentato il numero dei veicoli classificati come “micromobilità” – scooter elettrici, monocicli e pattini. La vita in città va a gonfie vele: il centro afoso di Kyiv sembra una festa continua, che  però bisogna lasciare prima delle dieci quando la metropolitana funziona ancora e il coprifuoco non è iniziato. Sullo sfondo dell’illuminazione serale ridotta e dei locali chiusi (in passato molti negozi e caffè del centro erano aperti quasi 24 ore su 24; ora tutto chiude verso le 19.00), le vivaci terrazze di ristoranti e bar sembrano provocatorie, e anche un po’ isteriche: questi sono i centri dell’ex normalità durante la guerra, durante le notizie sulle morti quotidiane di parenti, amici e colleghi, sulle atrocità dei russi, sul movimento del fronte, offensive e controffensive. 

 

Ma se ti fermi, ti immergi e ascolti, capisci che  la guerra è qui, con il fiato sul collo. Mentre ero in fila a uno sportello in banca, ho sentito la persona successiva in fila dietro di me rivolgersi al cassiere: “Come posso trasferire denaro alle Forze armate di Ucraina?”. Un trio di hipster a un tavolo vicino in un bar discute di un nuovo progetto di volontariato. Non lontano da casa mia, un grande fondo di volontari ha affittato un ufficio: alcuni pick-up per le Forze armate sono parcheggiati sulla strada lungo il marciapiede e le persone in pixel  – come viene chiamata l’uniforme ucraina – escono continuamente dalla porta. Lungo alcune strade i numeri civici non ci sono più, sono stati rimossi durante la preparazione dell’offensiva russa e non sono mai stati ripristinati. In tempo di pace, questo sarebbe sembrato sintomo di negligenza, ma ora, al contrario, sembra una specie di gioco, in cui non c’è una netta divisione tra il proprio e gli altri. Ci sono molti soldati per le strade,  quando li vedo, mi porto la mano al cuore e annuisco in segno di ringraziamento.

 

La felicità di incontrare conoscenti si trasforma in dolore: qualcuno ha perso la casa, qualcuno ha perso un marito al fronte. Durante la funzione domenicale in chiesa, il sacerdote recita una preghiera per la vittoria e per gli eroi caduti. Ho pensato che sarebbe stato più facile per me mentalmente tornare a casa, di solito dall’estero tutto sembra peggio di quanto sia in realtà. Ma non è affatto più facile. Un mio amico, che sta combattendo nelle Forze armate e che ho incontrato brevemente per consegnare batterie per walkie-talkie militari, dice: “E’ più facile solo in trincea”. Cioè, al fronte.

 

Dopo un agosto soleggiato, arriverà il settembre delle castagne. Di solito le persone tornano dalle vacanze, i bambini vanno a scuola, sulle strade iniziano i soliti ingorghi. Tuttavia, non so come sarà settembre quest’anno. Una delle domande chiave è come funzioneranno le scuole, se riprenderà l’istruzione in presenza. A Kyiv, poche scuole dispongono di rifugi antiaerei adatti alle esigenze militari e la minaccia di attacchi missilistici non è scomparsa: le sirene dei raid aerei ululano quasi ogni giorno, a volte più volte al giorno. Se le scuole non aprono, molte persone sceglieranno l’apprendimento a distanza da luoghi più sicuri o manderanno i propri figli nelle scuole all’estero.

 

Penso anche al prossimo autunno e al prossimo inverno: quando le foglie cadranno dagli alberi che ora decorano numerosi parchi, piazze e strade della città; quando le giornate si accorceranno e farà troppo freddo per terrazze, lunghe passeggiate, canti e balli; quando i prezzi aumenteranno a causa delle fluttuazioni dei tassi di cambio e le case verranno riscaldate a metà della capacità per mancanza di gas. E la guerra continuerà, una guerra di logoramento crudele e ingiusta, scatenata dalla Russia. Questo gelido respiro di guerra si sente attraverso il sole d’agosto, attraverso gli abiti luminosi delle ragazze, attraverso il canto mattutino degli uccelli. Ogni giorno luminoso avvicina Kyiv e l’Ucraina all’oscurità dell’inverno più duro della sua storia recente.

 

Ma dopo ogni notte arriva l’alba. Il titolo di questo articolo  è un riferimento agli anni Venti del Novecento, il decennio del massimo splendore della cultura ucraina, che fu fisicamente distrutta dalle autorità sovietiche negli anni Trenta. Questo periodo ha dato alla cultura ucraina e mondiale un certo numero di artisti – Mykola Khvylovy, Valerian Pidmohylnyi, Maksym Rylskyi, Mykola Zerov, Les Kurbas, Mike Johansen, Mykhailo Drai-Khmara e molti altri – ed è stato chiamato il “rinascimento fucilato”. Cento anni  fa anche loro camminavano  per le strade di Kyiv, respirandone l’aria. La maggior parte di loro fu repressa dalle autorità sovietiche: molti morirono nei campi o si suicidarono (Khvylovyi).

 

“I nostri anni Venti” è il nome del progetto della casa editrice ucraina Tempora, che, sotto il comando di Yarina Tsymbal, ripubblica antologie e raccolte di molti di questi artisti.
Ora sono di nuovo gli anni Venti. I nostri anni Venti. Dietro le nostre spalle c’è di nuovo un’incredibile conquista – nella cultura, negli affari, nella costruzione dello stato – creata in soli  trent’anni  di indipendenza. La Russia sta nuovamente cercando di sopprimerla, di impedirne l’esistenza, uccidendo il popolo ucraino e bruciando libri ucraini. Ma questa volta gli anni Venti saranno nostri: il tempo dell’Ucraina e della sua vittoria, nonostante tutto.

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