Roma Capoccia

Ecco com'è Roma, una città immaginaria oltre quella reale

Andrea Venanzoni

C’è quella di Gualtieri, in 15 minuti, ma anche quella del mare, di Ostia e di Suburra. Tutte le declinazioni d’una capitale 

Sarà forse la eco delle celebrazioni per Italo Calvino, sarà forse la consistenza spugnosa di una città dai contorni sempre più sfumati e liminali, ma la famosa frase di Giulio Carlo Argan, uno degli ultimi sindaci di Roma ad aver avuto una autentica visione di sviluppo della città, secondo il quale per ogni città reale ne esistono molte altre immaginarie torna potente alla memoria. Come fosse un antico mosaico composto da tessere invisibili, agglutinanti fisionomie, identità e consistenze di tante città diverse, Roma si apre a ventaglio in un’ombra spettrale che mozza il fiato. E quella frase torna fissa in mente quando, nello sdilinquimento quotidiano tra fermate di bus immote come il deserto dei Tartari e la legnosità damascata delle viscere elettrificate della metro, negli uffici anagrafici traboccanti di carne umana e storie e file kafkiane, tra imprecazioni e un tempo fisso all’orizzonte, immobile come un vecchio oceano di ruggine, si pensa alla città dei 15 minuti. E a come venne promessa, come chissà di quale scoperta si potesse trattare. 

L’immaginaria città dei 15 minuti, dove tutto è raggiungibile in poco tempo, i servizi vengono erogati a misura d’uomo e dove svizzera efficienza accomuna, e affratella, i Parioli a Tor Sapienza. Stemma araldico, quel Dipartimento che aveva pure riportato a una veloce riscrittura del Regolamento capitolino di organizzazione degli uffici, per assegnare risorse umane e implementare, così si dice, il progetto della immaginaria città dei 15 minuti, la quale oggi, come la Repubblica romana del 1849, esiste solo nel cuore di chi ci ha creduto.

C’è poi la Roma immaginaria dell’orizzonte in perenne allontanamento, come illusione ottica da deserto di rame: in questa città, il cui cielo arso dal sole si specchia su oceani di sabbia, ogni progetto, ogni annuncio, ogni idea di sviluppo della città si situa a una distanza in perenne movimento, fino a raggiungere la forma tremolante dell’utopia. La città dei cantieri, in cui pure una voragine diventa la Sagrada Familia, con un fine lavori che non è mai fine, ma sempre possibilità, imprevisto, legge del caos. Un termine che non termina e che si sposta, fende e attraversa le settimane, i mesi, gli anni, le epoche, come gli amanti decantati dal Conte Dracula di Stoker.

La città tecnologica, dell’innovazione, smart e intelligente. La figuri come uno scintillante ologramma neon tratto da un romanzo di William Gibson a Roma Est e invece è una zona argillosa, metà borgata metà Google Maps e per arrivarci devi stilare un complesso piano di avvicinamento che avrebbe fatto invidia al Phileas Fog de Il giro del mondo in 80 giorni. Tra pellegrinaggi a dorso di mulo, corriera, bus, se passa, metropolitana, se passa pure questa, per arrivare poi nel tempio della tecnologia.

La città verso il mare. Definizione che esiste davvero, la si trova messa nero su bianco nel Piano generale di trasporto urbano. A non esistere in questo caso, è la città. La città del mare, infatti, non è il centro di attrazione di energia industriale che aveva immaginato l’estro di Paolo Orlando risalendo il Tevere, ma solo Ostia, fatta rifluire a mera Suburra da oleografia di cinema, serie TV, criminologia spicciolina, inerzia amministrativa e indifferenza politica. Il decentramento è parola oscena, per la sensibilità del centralismo capitolino; quindi, la città andrà pure verso il mare ma è il mare a scappare sempre più lontano.

La città psichedelica, poi. Quella di annunci talmente roboanti da risultare quasi lisergici, come nelle migliori pagine di Carlos Castaneda. Una città la cui narrazione sposa la semantica della visione, del progetto, combatte la gentrification, a colpi di beni comuni, senso di comunità, recupero e rigenerazione urbana. Che poi stringendo proprio all’osso, è soltanto una forma di antipatia per la proprietà privata e il tentativo di acquistare giochini da centro sociale con i denari pubblici, come vorrebbero gli apologeti dello Spin Time e di tutta quella vasta galassia di esperienze dal basso che pure qui alla fine della fiera non sono esperienze e in molti casi non vengono nemmeno tanto dal basso.

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