Un'esposizione al Maam di Roma (foto LaPresse)

Raggi applica il populismo bislacco pure ai musei: la storia del Maam

Manuel Orazi e Francesco Parisi

La sciagura del populismo applicato all’arte contemporanea

Roma. Persino a Roma prima o poi i nodi vengono al pettine, anche per il Maam, il sedicente museo alle varie ed eventuali sulla Prenestina frutto di un’occupazione abusiva che si protrae da circa dieci anni e per colpa, guarda caso, del comune di Roma che ci ha messo altrettanto per concedere una variante urbanistica ai proprietari per la costruzione di appartamenti in luogo non di un’oasi verde, ma di un ex salumificio cadente. Ora il Viminale dovrà risarcire i Salini con oltre ventisei milioni di euro per non aver fatto valere l’ordine pubblico, quindi a pagare sarà il ministro Salvini, immaginiamo con quale letizia.

 

Da mesi avvertiamo della sciagura del populismo applicato all’arte contemporanea. In questa operazione Giorgio De Finis ricalca la figura di Cola di Rienzo grazie anche alla sciagurata investitura ricevuta dal vicesindaco, dalla posa bonapartista, Luca Bergamo e da alcuni operatori dell’arte contemporanea stranieri che, in visita nella Capitale, hanno posato il loro sguardo su un esperimento che, nella palude romana, appare comunque come qualcosa di leggermente vivo. Ma si tratta di vita e di arte contemporanea che possa anche solo minimamente oltrepassare il guardarail del raccordo anulare? L’idea di operare al di fuori del mercato dell’arte mainstream non ci appare così vincente soprattutto dal momento che il Maam è stato appannaggio dei più aggressivi dilettanti in circolazione pilotati da un cinico gioco di potere tra le associazioni sovversive di occupazione abusiva e un sedicente operatore culturale che è risultato vincitore. In mezzo quell’”umanità bacarozzola”, per usare una dizione di Luigi Bartolini, cui è stato detto: “Tu immigrato e senza casa sistemati qui dentro ed esponi le tue miserie, io organizzo le mostre in mezzo alle tue carabattole, parleranno di me e di te, tu avrai una casa, io un museo”. E un museo de Finis lo ha ottenuto veramente, solo che si tratta di uno dei principali musei romani, il Macro, mentre i senzatetto saranno presto sfrattati. Il risultato di questo esperimento è stato così eclatante che era inevitabile che qualcuno ancora più cinico, giocando al ribasso, abbia deciso di fare la stessa cosa. L’ex stabilimento Miralanza è diventato un altro museo a cielo aperto; addirittura come curatore di opere e calcinacci (spesso non distinguibili) è stato selezionato un Rom che si mostra inconsapevolmente sorridente nelle fotografie postate sui social. 

 

Dopo il confetto però esce il difetto, avvertiva Renato Carosone ed ecco la tegola della sentenza firmata dal giudice Alfredo Matteo Sacco, chiarissima. Il Maam non ha creato solo un danno economico alla proprietà e al progetto (che in origine prevedeva un tot di alloggi convenzionati), ma a tutto il quartiere. Apriti cielo, la masnada artistoide invoca le leggi razziali “erano legali pure quelle allora” e altri deliri. Ciò che è davvero insopportabile in tutto questo è la contraddizione di fondo: chi contesta il sistema e vuol essere alternativo, è felice di vivere e prosperare nei suoi spazi autogestiti, sociali e comunitari, ai bordi della legalità e della città come hanno fatto tutti i migliori artisti e anche architetti novecenteschi, da Paolo Soleri a Costant senza scomodare il Monte Verità. La canea di “independent curators” invece aspira, come dicevamo, a un qualsiasi ruolo pubblico ottenuto grazie a alla corsia preferenziale “in nome del popolo”.

 

A dimostrazione delle loro aspirazioni, tutt’altro che rivoluzionarie, de Finis, invitò Michelangelo Pistoletto – forse l’autore italiano più inflazionato in assoluto, ma venerato maestro – al Maam nello stesso periodo del 2015 in cui apriva una sua mostra alla Galleria Mucciaccia in Largo della Fontanella di Borghese. Nel vano tentativo di nobilitarsi, il Maam utilizzava un rappresentante del sistema ufficiale dell’Arte senza rendersi conto della goffaggine insita nel messaggio: il mercato dell’arte non fa solo porcherie senza senso promuovendo “i soliti noti”, ma al contrario seleziona perché anche i migliori (o più abili, a seconda dei punti di vista) devono fare i salti mortali per rimanere ad alti livelli vedi i ricorrenti scossoni nelle valutazioni dei vari Cucchi, Kounellis, Hirst o Cattelan.

 

Insomma la concorrenza è l’anima del mercato, anche di quello dell’arte e l’assenza di questo modello, evidentemente, non crea nuove personalità indiscutibili, ma ulteriori principianti.

 

Si può discutere, ovviamente, anche il precedente modello di gestione del Macro, vale a dire quello prevalente in Europa, fondato sul connubio pubblico-privato cioè sulla collaborazione tra alcuni (pochi, essendo a Roma) collezionisti e lo spazio museale. Certo però quello attuale di incitare i passanti a diventare piccoli Duchamp scoprendo che si possono esporre anche gli stracci con cui si puliscono i bulini o i pennelli non è tanto un modo per creare un magro consenso, la via più magliara al panem et circenses, quanto la strada maestra per riuscire a chiuderli, i musei – come nemmeno nelle più sfrenate fantasie naziste.

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