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Lo stato dell'arte ai tempi di Virginia Raggi

Michele Masneri

Ecco il nuovo "Macro Asilo". Un museo senza soldi, senza selezione e con poco senso (quindi in linea con il resto di Roma)

Che cubature!, viene da pensare entrando negli enormi spazi del Macro, il museo dell’arte contemporanea, autobiografia dell’arte romana, nato nell’epoca delle vacche grasse, gli anni pregiubilari, cresciuto nei faticosi Duemila, in cerca d’identità nei Duemila quasi venti. Diventato oltretutto “Macro Asilo”, secondo l’affascinante nuova dicitura (non si sa se asilo nel senso di diritto o di scuola elementare).

 

Nel quartiere elegante salario, uno pensa subito, che cubatura, che spazi. La struttura, opera dell’archistar Odile Decq, rossa e nera, oggi appare desolatamente vuota, e il nuovo curatore Giorgio de Finis si è inventato appunto questo asilo, quindici mesi di sperimentazione per aprire sostanzialmente il museo a tutti, senza biglietto, senza mostre, senza catalogo, tutto “open”, ma con “un palinsesto giornaliero ricco di incontri tra artisti e intellettuali”, come ha spiegato de Finis, già fautore del Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz. “E Metropoliz città meticcia è il nome che si sono dati coloro che hanno effettuato questa occupazione abitativa”. Così aveva detto l’immaginifico occupatore-curatore dell’edificio sulla Prenestina.

 

In sostanza, non c’è una lira, quindi l’idea di aprire il casermone di via Nizza un po’ a tutti non è male.

 

Capire il palinsesto del Macro oggi è però complicato. Al piano terra la quadreria con gli unici cinquanta pezzi della collezione permanente sta appesa nello stanzone principale con opere mirabili di Carla Accardi, Sergio Lombardo, Fabio Mauri, messe lì anche con scenografico effetto.

 

Ma il senso del palinsesto si ha piuttosto salendo al primo piano dove stanno gli artisti “in residence”.

 

Una delle trovate di de Finis sono queste “residenze”, artisti autocertificati arrivano qua e producono (poi ha specificato: non che “chiunque venga possa mettere il suo cavalletto lì e lavorare. Ci sarà un palinsesto molto rigoroso, dove ciascun artista sarà invitato a dare il proprio contributo. Gli artisti si confronteranno con me, mi diranno cosa vogliono fare, io dirò loro cosa voglio fare: non è una questione di selezioni, si tratta di capire se una cosa può funzionare o no, dal mio punto di vista, che lo dirigo”). Il punto di vista pare solido, l’idea di vedere gli artisti al lavoro è ganza (dietro una parete di vetro: tipo le mucche che fanno il latte che diventa formaggio all’Eataly-Fico di Farinetti).

 

Gli atelier però sono tutti disabitati perché “gli artisti stanno in pausa pranzo”, dice uno dei numerosi guardiani gentilissimi e attenti.

 

Ma questi artisti in residence risiedono proprio qua? “No”, dice la guardia, “staccano alle sette”. Il curatore invece dice che abita proprio qua. L’avete mai visto di notte? “Veramente no, mai”, dice un’altra guardia.

 

Sarebbe bello vedere de Finis con cuscino e pigiamino che va su e giù magari in cerca di un bicchier d’acqua.

 

Effettivamente però è molto a casa sua. A piano terra nel bookshop ci son praticamente solo libri suoi (non la sua biblioteca, ma sue opere. Tantissime: “Umani urbani e Marziani”; “Space metropoliz”, “Mezza galera”, “Catalogo del Maam”, “Rome nome plurale di città face to face”; “Il museo ovunque”; “Forza tutt* la barricata dell’arte”;  “Exploit - come rovesciare il mondo ad arte. Distruzioni per l’uso”. De Finis è fecondo. Scriverà di notte).

 

Ma tornando su, negli atelier, ecco oltre all’opera di Ria Lussi dedicata a Giordano Bruno, “La bestia trionfante”, con molte lampadine tipo natalizie, si sentono delle voci. Saranno gli artisti in residence? No, è l’altra opera “Voices, autocorrelatore acustico sistema automatico generativo di passeggiate relazionali con 10 emozioni” (brusii, ansimi, gargarismi)”. Qui insomma sembra d’essere in un qualunque museo d’arte contemporanea di qualunque città del mondo.

 

Entrati in un altro atelier un gruppo di artisti mangia, in attesa della fine della pausa pranzo. Ma è tornando giù al piano terra nello spazio “osservatorio nomade” che si capisce la portata e il manifesto del curatore-residente (ma dove risiederà? Negli attici? Farà colazione al mattino nel bar semideserto? Il bar è molto bello, con bagni artistici, non c’è nessuno, sembra di entrare in una discoteca ma a ora di pranzo). Nella zona nomade ecco alle pareti scritte inquietanti: “Xeneide, pratiche miti e poetiche dell’ospitalità. Per la prima volta nella storia Roma sembra rifiutare l’ospitalità a chi erra in cerca di rifugio. E’ questo un cattivo presagio sui destini della città?” (siamo nel pieno dell’opera “Rome”). E però sembra piuttosto che, dai pullman bipiano agli abitanti delle frasche del Colle Oppio, sia un momento meraviglioso a Roma per errare e cercare rifugio.

 

A terra, ancora, proiettori, biglie, cibo per umani, pennarelli (opera di Collettiva Geologika). Studi su Riace. “L’archivio ultraventennale di Stalker: una ricerca fondata sulla pratica del camminare lungo i margini e attraverso i confini della spazialità contemporanea, lontana da logiche escludenti, speculative e spettacolari. Questa pratica nomade, incerta, che abita i luoghi con chi li abita, può costituirsi come una scuola per fare città?”. Interrogativi che fanno riflettere.

 

Christian Raimo, assessore al Terzo municipio, ha scritto che il Macro Asilo è la “forma di arte contemporanea di quella comunità politica di artisti che ha compreso come non si può immaginare arte e museo per chi non ha una casa”. “Forse il gesto artistico più forte sarebbe immaginare il Macro Asilo come un grande centro di accoglienza”, ha detto l’assessore e scrittore. Pensiamoci: le cubature di sicuro lo consentirebbero.

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