Uno vale uno. Vogliono far dirigere il Macro a un videomaker
La scelta populista dell’assessore alla cultura di Roma Luca Bergamo per portare la periferia al centro
Più conveniente di un museo che funzioni, per un’amministrazione pubblica oggi c’è solo la mancata nomina di un direttore. Ignazio Marino non nominò quello del Macro per oltre un anno e mezzo, così da scaricare sul museo comunale le spese dell’assessorato e usarlo ugualmente senza che nessuno protestasse e soprattutto che chiedesse o cercasse budget per fare mostre, cioè per lavorare. Oggi la giunta Raggi è nella stessa situazione, non ha ancora nominato un direttore né fatto un bando a undici mesi dal suo insediamento. L’assessore alla cultura Luca Bergamo vorrebbe alla direzione del Macro Giorgio De Finis, autonominato direttore-squatter del Maam, un’ex fabbrica occupata sulla Prenestina. Così facendo Bergamo porterebbe metaforicamente la periferia al centro, con gesto squisitamente populista visto che De Finis è antropologo e videomaker, dunque privo delle qualifiche necessarie per dirigere un museo che fra le sue collezioni annovera 1600 opere circa fra quadri di Mimmo Paladino, Tano Festa, Enzo Cucchi, Giosetta Fioroni e via dicendo.
Maam sta per “Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia”, nome wertmulleriano per un ex salumificio che sorge fra il Pigneto e Centocelle. Gli artisti del Maam sono tutti mossi da sorprendenti e originali engagement culturali, foglie di fico ideologiche a buon mercato: comune è la voglia di combattere la mancanza di alloggi a basso costo, i diritti dei curdi in Turchia, lo sfruttamento dell’uccisione degli animali, il femminicidio, la pace nel mondo. L’attività degli artisti che espongono al Maam – che secondo le parole di De Finis “è un dispositivo ludico che nasce come condominio ma poi diventa una grande famiglia” – serve da trampolino di lancio per operazioni di mercato nonostante gli artefici di questi “cambiamenti” non ne siano sempre coscienti: perlopiù, assai ingenuamente, parlano di arte come terapia sociale.
Basquiat, Keith Haring e i graffitisti newyorchesi volevano avere successo e l’hanno avuto, pur lavorando sui marciapiedi o nelle metropolitane. Persino Banksy, il caso più rilevante di artista di strada contemporaneo, è diventato un boomerang, viste le quotazioni dei suoi graffiti sui muri di periferie inglesi o palestinesi; l’artista ha dovuto infatti vendere a prezzi stracciati le sue opere per evitare le speculazioni delle aste dove le stesse vengono battute a centinaia di migliaia di sterline. Chi inizia dalle periferie vuole arrivare sempre al Moma e dintorni, anche sulla pelle dei poveri immigrati o barboni che si sono accampati dentro l’ex fabbrica in condizioni igieniche precarie, usati come scudi umani dagli artisti che guarda caso non vivono insieme con loro pur professando uno spirito vagamente comunitario. De Finis ha ben chiaro il suo obiettivo dall’inizio: “Il Maam si pone in concorrenza con le grandi istituzioni museali italiane e della capitale (il Maxxi e il Macro), facendo della sua perifericità, della sua totale assenza di fondi, della sua non asetticità il suo grande punto di forza”. E ancora: “Il Maam è fondato sul dono e non sul mercato”, ma poi aggiunge “il Maam si avvale di artisti che però hanno un mercato”.
Se guardiamo appunto agli “operatori artistici” del Maam troviamo gente che continua a proporre situazioni (non opere) già fatte fra gli anni Sessanta e Settanta e con le quali magari vincono anche piccoli premi d’arte, sostenuto da riviste oggi tutte rigorosamente on line che ovviamente non pagano i propri redattori. Artisti che nella maggior parte dei casi arronzano vaghi concetti politico-sociali come cortine fumogene.
E’ evidente, almeno nel caso del Maam, che si tratti del senso di colpa di deboli di cuore che fanno “arte” mentre il mondo urla e stride. Nessuno di loro ha il coraggio di fare Arte e basta. Vorrebbero chiedere permesso o meglio perdono: mentre nelle periferie gli immigrati si accoltellano, la gente perde casa e lavoro, loro pensano a fare Arte. E così facendo ammazzano l’attività di cui si fanno paladini. A causa della convivenza momentanea con gli immigrati peruviani, senegalesi, marocchini, rom, rumeni, gli artisti amano definirsi “meticci” nonostante il loro accento tradisca, per la maggior parte dei casi, origini marcatamente romane come quello di Irene, portavoce dei Blocchi Precari Metropolitani. Per ogni artista relativamente legato al mercato ufficiale (pochi, ma qualcuno esiste, si riconoscono dalle foto nei loro cataloghi in cui appaiono rigorosamente a piedi scalzi) c’è tutta una schiera di “orecchianti” di “vorrei ma non posso”, di artisti disoccupati dalle lunghe barbe con gli anfibi slacciati, e di curatori indipendenti con Moleskine d’ordinanza, molti anelli alla mano, pantaloni a sigaretta, risvoltino e mocassino senza calze. Indipendent curator, come scrivono sui loro curricula e biglietti da visita stampati il giorno dopo della laurea, figli degli sciagurati master in “curating” che oggi persino La Sapienza propone. Indipendenti ovviamente perché nessuna galleria privata o pubblica è disposta a dare loro uno stipendio per “curare” mostre di vecchi televisori buttati alla rinfusa per terra (una mostra di arte contemporanea senza televisori per terra non è una mostra di arte contemporanea), di catene di biciclette arrotolate a spirale, impalcature di tubi innocenti fatte passare per sculture.
Colpa di questo modo di fare è il concetto di arte relazionale: viene servito un buffet nel museo che ospita l’inaugurazione di una mostra, e l’opera consiste proprio in quel buffet, nient’altro. Ci sono poi l’arte impegnata e l’arte nel sociale. Ma c’è bisogno di questi tipi d’arte? La periferia già di per sé è una forma di arte della sopravvivenza, del recupero, dello scontro, della dissidenza e l’intervento di questi artisti serve solo a rassicurare l’ordine, a creare potere per sé (di mercato, di rivista, di critica) illudendo gli emarginati che i loro problemi saranno compresi e risolti. Ecco perché la nomina di De Finis a direttore del Macro sarebbe una disgrazia. Certificherebbe non solo la fine delle competenze, ma anche la triste funzione odierna della politica: quella di un eterno intrattenimento a sfondo propagandistico che a Roma premierebbe i soidisant artisti di quartiere, come i disoccupati organizzati napoletani, invece che gli artisti che ancora osano dipingere o scolpire facendo la trafila nazionale e internazionale, ovvero gli occupati disorganizzati.
Ai veri artisti non interessa nulla dei problemi sociali: se li usano è per farne opere d’arte e non opere di bene.
Roma Capoccia - Odo romani far festa