Il ministro Gennaro Sangiuliano (foto LaPresse)

l'editoriale del direttore

L'egemonia culturale? Una gran truffa

Claudio Cerasa

Le scazzottate gramsciane tra destra e sinistra (via Sangiuliano) sono insieme comprensibili e desolanti. E illuminano un dramma di governo: l’incapacità assoluta di occuparsi di egemonia italiana nel mondo. Esempi

Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ieri, in un dotto intervento sul Corriere della Sera, si è esercitato in una specialità della casa e ha offerto spunti per ragionare intorno a un tema molto caro alla destra di governo: la nuova egemonia culturale che questa maggioranza da mesi promette di voler mettere in campo con varie sfumature di goffaggine. Nel caso specifico, Gennaro Sangiuliano, i cui miracoli da ministro hanno indotto i bravi amici del Tg2 a chiamarlo in modo naturale qualche settimana fa Giuliano Sangennaro, ha tentato un’operazione spericolata, verrebbe da dire di cannibalismo culturale, affermando che, tutto sommato, sarebbe un errore considerare Antonio Gramsci come un mito di una sola parte politica. Tesi: Gramsci ha corretto il marxismo classico, lo ha aperto al popolo nazione, ha messo in campo una “coscienza contemporanea” e non è dunque un errore considerarlo vicino al pensiero di un intellettuale non progressista come Benedetto Croce. La tesi è suggestiva, così come è suggestiva l’idea di fare del povero Tolkien un mito fondativo della cultura conservatrice di destra. Ma lo spunto per così dire interessante che ci offre il ministro Giuliano Sangennaro per ragionare attorno al tema annoso dell’egemonia culturale è uno spunto che parte da un dato di realtà a metà tra il deprimente, il desolante e il preoccupante.

Da quando la destra meloniana è arrivata al governo, il suo tentativo di declinare una “nuova” egemonia culturale si è articolato attraverso due direttrici diverse. Da un lato vi è stata una volontà, comprensibile, di occupare tutti i luoghi del potere culturale italiano, facendo coincidere la nuova egemonia con una semplice e legittima occupazione dei posti offerti dal pallottoliere dello spoils system (quando è la sinistra che mette in pratica lo spoils system, lo spoils system si chiama “sano ricambio”; quando è la destra a metterlo in pratica, lo spoils system diventa “deriva autoritaria”). Dall’altro lato, e qui arriviamo al caso della lettera di Giuliano Sangennaro, vi è stata una volontà di intendere, da parte della destra, un esercizio dell’egemonia culturale in senso gramsciano: ricerca di occasioni per manifestare una forma di “dominio culturale”, con un coinvolgimento carsico, nella causa, di intellettuali organici al popolo-nazione. Tentativo comprensibile, legittimo, ma tentativo, con tutto il rispetto per il simpatico ministro, semplicemente deprimente agli occhi di chiunque consideri prioritario per il nostro paese non una dialettica tra presunte egemonie culturali di destra e di sinistra (al momento il duello è Cortellesi vs Tolkien, guest star Gramsci) ma una dialettica tra una vecchia Italia spesso concentrata sul proprio ombelico e una nuova Italia che avrebbe la forza, la possibilità e persino gli strumenti per mettere a terra una svolta concreta, rendendosi conto cioè che l’unica egemonia di cui dovrebbe occuparsi un governo (e i suoi ministri, persino quelli santi) è quella che riguarda l’egemonia italiana nel famoso “globo terracqueo” amato da Meloni. Esportare la cultura italiana nel mondo può sembrare un concetto astratto, utopistico, generico, ma diventa invece un concetto molto concreto se si prova a ragionare partendo da alcune domande precise.

Occorrerebbe chiedersi, per esempio, se il governo stia facendo qualcosa per esportare all’estero, con più forza di oggi, il proprio design, le proprie eccellenze, la propria opera, le sue sculture, il brand dei propri musei (ad Abu Dhabi, per dire, il Louvre anni fa ha venduto il diritto a usare il proprio brand per 550 milioni di euro: e noi?). Occorrerebbe chiedersi, per esempio, se sia normale che il patrimonio artistico italiano riesca ad attrarre solo 65 milioni di turisti stranieri all’anno (contro i 90 milioni della Francia), se sia normale che tra le prime dieci città più visitate del mondo ci sia Bangkok e non ci sia alcuna città italiana (l’Italia è il paese al mondo con più siti Unesco patrimonio dell’umanità), se sia normale che l’Italia non abbia un suo museo nazionale con cui poter esportare il suo brand nel mondo (chiedersi chi sia il Gramsci della destra è importante, ma sarebbe utile chiedersi anche perché l’Italia non ha il suo MoMa, perché l’Italia non ha il suo Louvre, perché l’Italia non ha il suo British Museum). Occorrerebbe chiedersi tutto questo ma occorrerebbe chiedersi anche perché un governo desideroso di occuparsi non dei capricci interni ma di far valere il primato dell’Italia nel mondo non consideri come un formidabile investimento nella cultura, nel suo brand, nel suo futuro, un tema forse più importante di Gramsci e di Tolkien: l’intelligenza artificiale. L’Italia, come sapete, è quinta al mondo tra i paesi esportatori di beni strumentali nei comparti automazione, creatività e tecnologia, con un export che vale quasi 28 miliardi di euro e un export potenziale di ulteriori 16 miliardi.  Ma per ragioni misteriose la forza dell’Italia nella robotica è un elemento più di imbarazzo che di orgoglio per i nuovi patrioti, desiderosi di trasmettere ai propri elettori un messaggio, quando si parla di innovazione culturale, di questo tipo: non vi preoccupate, vi proteggiamo noi dalle nuove pazzie tecnologiche. E il risultato si vede. Qualche mese fa, a giugno, il Global AI Index ha misurato il modo in cui 62 paesi in giro per il mondo hanno scelto di investire in intelligenza artificiale basandosi su tre pilastri di analisi: investimenti, innovazione e implementazione. L’Italia si trova al ventitreesimo posto dopo Stati Uniti, Cina, Singapore, Regno Unito, Canada, Corea del sud, Israele, Germania, Svizzera, Finlandia, Paesi Bassi, Giappone, Francia, India, Australia, Danimarca, Svezia, Lussemburgo, Irlanda, Austria, Spagna e Belgio (sul volume degli investimenti venture capital in intelligenza artificiale l’Italia si classifica in Europa in ottava posizione, 204 milioni di dollari l’anno, dietro a Romania, Spagna e Irlanda). Tre giorni fa, il Fondo monetario ha ricordato che l’intelligenza artificiale, nei prossimi anni, influenzerà il 40 per cento dei posti di lavoro in tutto il mondo. Nelle economie avanzate, compresa l’Italia, questa cifra, dice l’Fmi, salirà al 60 per cento, ma allo stesso tempo potrebbe rendere i paesi più ricchi aumentando la produttività del lavoro (del 18 per cento) e generandone altro. Un governo desideroso di far valere l’egemonia culturale dell’Italia nel mondo dovrebbe iniziare a occuparsi un po’ meno del passato e un po’ più del futuro. E chiedersi, con sincerità, se il governo stia facendo di tutto per esportare la cultura italiana nel mondo, per cercare nuove leve per esercitare la sua egemonia nel globo terracqueo o se sta per caso dedicando troppo tempo alle polemiche da bar, alle scazzottate da social o alla battaglie culturali fuori tempo massimo. La risposta, purtroppo, la conoscete già.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.