Giuseppe Conte (Ansa)

scricchiolii

Le europee (con l'ombra di Dibba), i dubbi dei big del M5s: anche Conte ha le sue grane interne

Ruggiero Montenegro

Presto l'ex premier dovrà pensare a candidature e metodo di selezione, che potrebbe segnare la fine definitiva della democrazia diretta. Intanto c'è anche chi mette in discussione la linea dell'ex premier: "Non possiamo chiedere ogni giorno le dimissioni di qualcuno"

Per ora sono solo leggeri scricchiolii, quelli di una piccola minoranza (silenziosa) che lancia piccoli segnali, sollevando dubbi in vista delle europee e sulla linea adottata da Giuseppe Conte nelle ultime settimane. Ma sono anche il sintomo che pure nel granitico partito dell’ex premier, il M5s, le grane non mancano.

Nella sede di via di Campo Marzio, i conciliaboli cominciano a farsi un po’ più frequenti. Se ne parla anche in Transatlantico, alla Camera. Perché all’appuntamento elettorale di giugno non manca poi molto, ed è tempo di cominciare a ragionare seriamente sulle candidature. Conte l’ha già detto: “Non si prendono in giro gli elettori”. Parlava della premier Meloni, si rivolgeva a Elly Schlein. Lui di certo non ci sarà, non come candidato almeno. Ma le liste probabilmente saranno sua diretta emanazione, in un remake di quanto accaduto per le politiche 2022. Lo schema infatti potrebbe essere simile. La possibilità cioè, per il capo politico, di avere l’ultima parola. “E’ anche una questione di garanzia”, dice al Foglio Dario Carotenuto, pentastellato della prima ora, dai tempi dei meet up, eletto in Campania. “Nella mia regione per esempio ci sono dubbi, dovuti a iscrizioni sospette che potrebbero influenzare il voto. E questo – spiega – vale anche negli altri territori dove storicamente andiamo bene. Stiamo discutendo per trovare la soluzione migliore”. Che potrebbe essere, appunto, quella di lasciare un margine, più o meno largo, alla discrezionalità del capo, magari decidendo posizionamenti in lista, dunque gli eletti. Una scelta che tuttavia rappresenterebbe un ulteriore colpo alla (fu) democrazia diretta, orpello ormai sbiadito di un Movimento che, quasi per paradosso, è tornato a cavalcare negli ultimi tempi molti dei temi della prima ora. Anche per questo, nel M5s, c’è pure chi auspica un difficile ritorno alle origini, che dia maggiore peso al voto online. “Indubbiamente sarebbe una scelta di coerenza, ma si vedrà”, dice un altro deputato grillino alla buvette di Montecitorio.

Il dossier europee partirà in questi giorni e certamente non si concentrerà solo sul metodo. Cinque anni fa il M5s portò a casa il 17 per cento e 14 seggi, un risultato che i grillini – che si dicono ottimisti – puntano almeno a eguagliare. Servono però le personalità giuste in grado di convogliare preferenze, interpreti credibili di questa fase del Movimento. Uno dei nomi caldi resta quello di Marco Tarquinio, l’ex direttore di Avvenire è un profilo apprezzato a sinistra e sarebbe in grado di incrociare le istanze del pacifismo. Anche Pasquale Tridico è considerato tra i papabili. L’ex presidente dell’Inps, tra il 2019 e il 2023, ha giocato un ruolo da protagonista nell’attuazione del Reddito di cittadinanza, la misura bandiera che dovrà tornare a sventolare in campagna elettorale, insieme agli altri temi identitari. E poi, soprattutto, c’è Alessandro Di Battista, di cui i più puri (forse i più nostalgici), caldeggiano il ritorno. I rapporti con Conte sono buoni, ma in politica questo non basta. E infatti il primo ostacolo alla candidatura di Dibba, sempre che si conceda, potrebbe essere proprio il leader M5s. Di Battista, che intanto ha lanciato l'associazione di cittadinanza attiva Schierarsi, non vuole essere imbrigliato nelle dinamiche di partito, vuole muoversi da spirito libero. Era stato lui stesso a metterlo in chiaro già nel 2022. Candidarlo, ed eleggerlo, comporterebbe per questo dei rischi che l’ex premier non vuole correre. Senza dimenticare il risvolto mediatico, essendo Di Battista profilo noto e ancora affascinante per tanti simpatizzanti grillini. Potrebbe insomma oscurare il leader e innescare una competizione che – ragionano i deputati –  non farebbe bene al M5s.

E nemmeno allo stesso Conte, che intanto deve guardarsi da certi mormorii interni. Sono dubbi che avanzano soprattutto tra chi è al secondo mandato. Mettono in dubbio la strategia adottata negli ultimi passaggi. “Va bene la questione morale, ma possiamo continuare a invocare ogni giorno le dimissioni di qualcuno?”, è la domanda che serpeggia fra alcuni big. Temono l’effetto boomerang; temono che da queste continue richieste la premier possa uscirne addirittura rafforzata, con la beffa ulteriore di ricompattare la  maggioranza. 

Una questione di tempismo e di opportunità politica, che vale anche per le amministrative. A differenza delle europee, sui territori per non fare governare la destra tocca allearsi. Impresa che al di là della Sardegna si sta rivelando molto difficile. “Dipende dai temi, dai programmi e non dai nomi”, è la vulgata ufficiale. E sarà pure così, ma non tutti tra i grillini la pensano allo stesso modo. Il granitico partito di Conte, forse lo è un po’ di meno.

 

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