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le dichiarazioni

Lo zelo prudenziale di Meloni sull'intelligenza artificiale

Giuseppe De Filippi

La premier disegna un quadro fosco in cui c'è solo la parte in cui l’IA si sostituisce a lavori umani e non c’è nulla sugli effetti positivi. Non serve aver paura, ma governare la tecnologia

Se il presidente dell’ordine dei giornalisti, con tutto quel tono anti bavaglio che c’era in sala, ti alza un assist in apertura di conferenza stampa non te lo fai sfuggire. Giorgia Meloni non ha sprecato l’occasione per una convergenza programmatica con Carlo Bartoli sulla gestione regolatoria e politica dell’intelligenza artificiale. Lo spunto di Bartoli, veloce come richiesto dalla situazione, non era tutto in negativo. “L’Italia – ha detto – deve scegliere se accettare di essere tagliata fuori dal grande mercato internazionale della cultura e dell’informazione o cercare di riguadagnare un ruolo in quell’ambito, nel quale si produrrà una fetta rilevante della ricchezza planetaria”. E poi ragionevoli richieste di collaborazione tra istituzioni, giornalisti, editori, l’impegno verso l’autoregolamentazione e la trasparenza, perché i lettori sappiano in anticipo se i contenuti proposti sono stati generati interamente da sistemi di intelligenza artificiale. Di fronte al tono aperturista di Bartoli, che pure era parte in causa, come rappresentante di una professione messa sotto pressione dall’IA, Meloni ha reagito con un apparente eccesso di zelo prudenziale, seguendo la linea costantemente adottata dal governo su innovazione e digitalizzazione. “L’intelletto rischia di essere sostituito – ha detto il presidente del Consiglio – l’impatto dell’intelligenza artificiale riguarda anche lavori di alto profilo, rischiamo un effetto devastante in cui vedremo sempre meno persone necessarie. Non so dire se siamo ancora in tempo”. 

Un quadro fosco, quello disegnato da Meloni, in cui c’è solo la parte in cui l’IA si sostituisce a lavori umani e non c’è nulla sugli effetti positivi della fase di integrazione tra l’intelletto (complimenti però per il ripescaggio meloniano del termine caro a Dante e alla Scolastica e stupidamente abbandonato da molti) e il supporto di sistemi intelligenti capaci di leggere più rapidamente enormi quantità di dati, di fare confronti di immagini per minimi particolari e, insieme, di elaborare calcoli complessi. Va riconosciuto che si è trattato di un intervento velocissimo, in cui, probabilmente, il presidente del Consiglio non ha avuto il tempo di completare il discorso, passando dalla fase della paura a quella delle opportunità. Però il richiamo a un’iniziativa immediata nel G7 a guida italiana ha avuto un suono ridondante e regressivo insieme. Perché, sopraffatto dalla preoccupazione, si è dimenticato di accennare all’unica iniziativa mondiale esistente per provare una regolazione dell’IA. Può piacere o no, ma ci sono documenti ufficiali dell’Ue, con le prime indicazioni per far camminare assieme la crescita sociale e lavorativa con il contributo dei nuovi sistemi di analisi e di elaborazione. 

Secondo Marco Bentivogli “non ci sarà una sostituzione devastante del lavoro. Certo, qualche effetto è inevitabile, ma ridurre tutto ai soli rischi non ha senso e se il G7 partisse così sarebbe una partenza sbagliata”. Era più semplice, e si fa ancora in tempo, cavarsela con una ricognizione dell’iniziativa europea e con la volontà di mettere la questione all’attenzione del G7. Anche perché, riguardo all’applicazione dell’IA in ambiti lavorativi si presta male l’atteggiamento di difesa e contrattacco, classico della nostra comunicazione governativa. “Invece c’è una grande occasione per giocare d’anticipo”, ci dice dall’Università di Yale Luciano Floridi, capo del centro studi di etica digitale. 

“Una grande occasione – continua Floridi – perché  i tempi della trasformazione necessaria a valorizzare l’impatto dell’IA non sono brevissimi ma neppure lunghi. Bisogna agire sulla qualità della formazione, andando a integrare con scuola e università ciò che già fanno le aziende con le loro Academy. Non bisogna avere paura degli effetti sostitutivi tra macchine e lavoratori, bisogna governarli. Singapore, Giappone e Corea del Sud, i paesi con più robotica e automazione al mondo, non hanno un problema di disoccupazione. Ma la formazione richiesta deve saper rispondere ad aziende in cui per ogni robot in più serve un ingegnere in più, con una crescita parallela di occupazione e di automazione. La disoccupazione che noi ci troveremo a fronteggiare nasce da disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, è lì che bisogna impegnarsi. Per questo il G7 è una buona occasione e farà bene Meloni a porre la questione, ma serviranno l’impegno fattivo e il riconoscimento degli effetti della regolazione, cioè qualcosa di ben diverso dall’atteggiamento fatto solo di preclusioni e di preoccupazione, che pure è condiviso da molti esponenti delle classi dirigenti in tutto il mondo”.

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