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Il New York Times non è contro l'IA

Il giornale fa causa a ChatGPT per violazione di copyright, non per luddismo 

A due settimane dall’accordo con cui il gruppo editoriale Axel Springer ha stretto un’alleanza con OpenAI, il New York Times ha preso una decisione del tutto opposta, denunciando sia OpenAI sia Microsoft per l’utilizzo non autorizzato dei suoi articoli e contenuti. Violazione di copyright, quindi: proprio quell’elefante nella stanza che molti nella Silicon Valley stanno cercando di evitare da un anno, e che divide pubblico e addetti ai lavori. Perché la magia di ChatGPT e altre intelligenze artificiali generative possa avvenire, questi sistemi devono analizzare enormi quantità di dati, in un processo di allenamento. Ma dati, contenuti, immagini e parole che hanno reso le IA in grado di scrivere e disegnare sulla base di qualche input arrivano da ovunque nel web: libri, archivi digitali, social network, siti e articoli di giornale. Secondo il New York Times, però, milioni di suoi articoli sarebbero stati usati per allenare chatbot che ora sono in competizione col giornale. E con i media tutti. 

    

La discussione è appena iniziata, e dalla causa New York Times vs ChatGPT interesseranno tutti, anche molti artisti e disegnatori, che da tempo accusano servizi IA di “copiarli”. Ma non c’è ancora consenso attorno a queste pratiche: le macchine sono davvero in grado di copiare o si limitano a prendere ispirazione? Nel giornalismo, sono semplici compilatori o sono in grado di dare notizie? Si direbbe che un pezzo di Silicon Valley abbia già deciso la risposta: a16z, tra i principali fondi d’investimenti del settore, ha detto chiaramente che “imporre il costo vero o potenziale del diritto d’autore sui creatori dei modelli di IA significa uccidere o limitarne seriamente lo sviluppo”.

 

Ma pochi giorni prima dell’annuncio della causa, il New York Times aveva assunto un “direttore delle iniziative legate alle IA”, Zach Seward, a conferma del fatto che lo sviluppo di questi sistemi interessa a tutti: grandi aziende, social network, editori. E che non tutti gli editori sono disposti a delegarlo a una singola azienda. Il New York Times, a quanto pare, vuole fare da sé.