Eugenio Altamente - Ansa  

L'editoriale dell'elefantino

Basta sudditanza della politica. La magistratura non si cambia rilasciando interviste ai giornali

Giuliano Ferrara

La politica inerme davanti ai pm che riscrivono la storia d’Italia come se fossero una lobby che svuota di significato il funzionamento della democrazia liberale

Eugenio Albamonte è un pubblico ministero, già capo dell’Associazione nazionale magistrati, della corrente di Area che in congresso si dice esterrefatta della pretesa che i magistrati siano considerati dei burocrati. Infatti Albamonte stabilisce così la sua equivalenza costituzionale tra magistratura e potere legislativo: alla domanda su come giudichi l’idea di un test psico-attitudinale di reclutamento per i magistrati, come per i piloti di aereo e per i poliziotti, il pm risponde su Repubblica: “Come reagirebbe la politica se io oggi proponessi un identico test per candidarsi in Parlamento?”. Non lo sfiora la realtà, una realtà costituzionalmente garantita come l’indipendenza della magistratura. Non pensa all’ovvio, all’evidente, all’irrecusabile: il magistrato è un funzionario incaricato di applicare la legge e viene scelto tramite concorso, ha un diritto e un dovere di indipendenza che gli è garantito e imposto dalle scelte delle istituzioni rappresentative ed è incardinato in Costituzione proprio perché deve essere solo “la bocca della legge”, perché deve essere e apparire imparziale, mentre l’eletto in Parlamento è un cittadino che esprime la democrazia dei partiti e dei movimenti, l’elezione popolare è il suo unico possibile test, e può essere parziale, conflittuale, senza limiti politici né vincolo di mandato.        

Nella bizzarra e faziosa intervista a Repubblica Albamonte, burocrate in servizio per applicare la legge, specula a ruota libera sulle intenzioni politiche di un ministro, Guido Crosetto, che ha affidato ai giornali il suo timore di iniziative politicizzate della magistratura contro il governo eletto nel settembre del 2022, accusa grave (e scontata, ma non per questo meno seria, dopo trent’anni di guerra tra pm “supplenti” e politici di tutte le fazioni egualmente molestati e intimiditi da indagini e sentenze non sempre al di sopra di ogni sospetto), accusa che Albamonte conferma per vera senza nemmeno accorgersene, in automatico. Si lancia infatti, subito dopo, in giudizi temerari sulla perdita di peso regolativo del presidente della Repubblica nel caso il Parlamento approvasse una legge di riforma costituzionale proposta da chi esprime la sua maggioranza, sui rischi politici e istituzionali connessi a una libera determinazione eventuale e futura del legislatore in ordine all’elezione diretta del presidente del Consiglio, sulle intenzioni elettorali di intimidazione preventiva di una maggioranza che al congresso della sua corrente non era nemmeno invitata a discutere con le opposizioni, presenti, di Giuseppe Conte e di Elly Schlein.  


Ma il problema non è il dottor Albamonte. Si sa. Una parte consistente, attivistica, querula e vittimistica della magistratura, ben rappresentata dal suo sindacato nazionale e da alcune correnti e sottocorrenti, agisce come un super partito irresponsabile, corporativamente coperto dal cosiddetto autogoverno, e interferisce nel funzionamento delle istituzioni elettive, dei poteri legislativo e giudiziario, riscrive la storia d’Italia con risultati accademici per così dire asinini, funziona insomma come una lobby che svuota di significato il funzionamento della democrazia liberale. L’Italia è un paese informale, non serioso, in cui tutto spesso sembra possibile. Ecco. In nessun paese al mondo fioriscono, come un irrinunciabile status symbol, l’intervista continua, la rappresentazione supereroica del magistrato combattente, la politicizzazione correntizia della corporazione, la pretesa di una assoluta impunità di fronte a ogni sorta di prevaricazione dell’equilibrio dei poteri, la soddisfatta e arrogante esigenza, ormai una seconda pelle per moltissimi magistrati, di figurare e funzionare come revisori dei costumi, censori delle opinioni sgradite alla casta togata, datori di lezioni in ogni campo politico e sociale.

Trovatemi un magistrato americano inglese francese svizzero spagnolo tedesco o di chissà dove paragonabile a quella parata di bellurie e di protagonismi che è il sale dell’amministrazione italiana della giustizia. Di fronte a questo panorama bisogna dire che Berlusconi aveva la remora di aver vissuto da imprenditore in ascesa in un paese semilegale, come quello degli anni Settanta e Ottanta, di avere un corposo conflitto di interessi che gli legava le mani, e la sinistra di governo aveva alle spalle il peccato originale di essere arrivata alla legittimazione di potere anche grazie alla distruzione dell’Italia dei partiti perseguita dai pool di Milano e Palermo, con incompleto ma solido successo. Si sperava che i Nordio e le Meloni, venuti da spiriti garantisti o forcaioli che fossero, potessero emanciparsi dalla sudditanza ai pm. Non è con le interviste, del Guardasigilli o del ministro della Difesa, che questa leale aspettativa può essere esaudita. Non è con gli avanti e indietro a denotare timidezza e insicurezza che si governa il principale problema istituzionale e politico di questo paese. Mancano misure di riforma radicali. Mancano, a un anno dalla vittoria elettorale della nuova compagine di centrodestra. E questo è tutto. 
       

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.