Ansa

L'editoriale del direttore

Crosetto, le procure, il governo. L'opposizione giudiziaria spiegata a chi ha gli affettati sugli occhi

Claudio Cerasa

Per capire il dramma dell’“opposizione giudiziaria” più che cercare dettagli è sufficiente un ripasso della storia

In questi giorni si è molto discusso sulle ragioni che hanno spinto il ministro della Difesa Guido Crosetto a sostenere, in un’intervista al Corriere della Sera, che il governo di cui fa parte potrebbe essere messo a rischio “da una forma di opposizione giudiziaria”. Diversi osservatori, con tono indignato, hanno chiesto conto al ministro di questa frase e si sono interrogati su quale potesse essere stata la riunione di una corrente della magistratura, evocata da Crosetto, in cui si sarebbe dibattuto, secondo il ministro, su come “fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni”. Per ragionare sull’affermazione forte di Crosetto ci sono due strade differenti. La prima porta a ragionare sul dettaglio, a interrogarsi cioè su cosa sarà mai successo di così grave da aver convinto il ministro a lanciare un tale allarme. La seconda strada porta invece a ragionare sul contesto, sul quadro generale e a chiedersi, dettaglio a parte, se l’affermazione del ministro, l’individuazione cioè di una potenziale opposizione giudiziaria che in un qualsiasi momento potrebbe mettere a rischio il governo, sia da considerare una fesseria oppure no.

Se si sceglie di inquadrare il tema partendo dal secondo punto, non si farà fatica a riconoscere che l’affermazione del ministro Crosetto è sorprendente solo per chi da trent’anni, con molte fette di prosciutto sugli occhi, finge di non vedere che razza di paese sia l’Italia quando si parla di rapporto tra potere esecutivo e potere giudiziario. E la presenza di un paese in cui l’azione penale è discrezionale, in cui i magistrati possono utilizzare i loro poteri in modo arbitrario, in cui i pubblici ministero non devono rendere conto a nessuno dei propri errori, in cui la custodia cautelare viene utilizzata come strumento di pressione investigativa, in cui le intercettazioni vengono utilizzate per sputtanare il prossimo, in cui le norme vaghe permettono di trasformare in un criminale chiunque senza che sia necessario portare a supporto i fatti, in cui il processo che si svolge sui media vale più del processo che si svolge nelle aule dei tribunali e in cui da anni governi di ogni colore devono fare i conti con le esondazioni di procure ideologizzate specializzate nel trasformare il potente di turno in un cinghialone da abbattere dovrebbe essere sufficiente a far capire che sul tema dell’opposizione giudiziaria a essere sceso da Marte è chi osserva il dito del ministro e non  la luna che indica, e cioè la presenza nel nostro paese di una repubblica fondata sempre meno sul diritto al lavoro e sempre più sull’attivismo delle procure. Ma se si vuole andare a ragionare sul dettaglio, sul caso specifico, ci sono alcuni piccoli episodi recenti che si potrebbero segnalare a chi ha scelto di mettersi fette di prosciutto sugli occhi quando si parla di giustizia italiana. Il primo episodio è legato alla discesa in campo di Giuseppe Santalucia, numero uno dell’Anm, l’Associazione nazionale dei magistrati, contro la riforma costituzionale progettata dal governo: “Si tratta – ha detto il 7 novembre – di uno sbilanciamento e uno squilibrio a favore del potere esecutivo”. Alla riunione della corrente Area a Palermo, sempre il segretario dell’Anm, a ottobre, ha spiegato anche che rischi correrebbe il governo, nelle aule giudiziarie, portando avanti la sua riforma plebiscitaria. 


 “Se le minoranze vengono escluse dal circuito della partecipazione decisionale è logico e inevitabile che cerchino nelle aule di giustizia quella voce che non hanno avuto nella fase della formazione della volontà generale, quindi aumenteranno i conflitti”. L’8 novembre, il segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino, aggiunge un carico ulteriore, sempre sul tema: “La riforma costituzionale? Si tratta di una truffa delle etichette, giacché l’esito dei proponenti è quello di sconvolgere l’equilibrio tra i poteri dello stato, riducendo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura tutta”. Passano pochi giorni e alla riunione di Md a Napoli, il 12 novembre, i magistrati della corrente più a sinistra della magistratura aggiungono elementi in più, sempre sul tema riforme. Giuseppe Borriello, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Potenza, dice che la magistratura deve denunciare “la deriva burocratica del nostro lavoro”, afferma che “il compito dei magistrati è di tutelare gli interessi della collettività” e ribadisce il fatto che le funzioni giudiziarie “non possano non essere ispirate da contenuti valoriali per non utilizzare un termine pericoloso che è quello ideologico”. Valerio Savio, giudice del tribunale di Roma, dice che Md deve difendere “con forza” le sue posizioni contro la riforma, suggerisce di portare avanti questa “battaglia” anche all’interno degli uffici e invita a mandare “forte e chiaro all’esterno questo messaggio” costruendo rapporti  con i comitati che si creeranno.

Per mettere a fuoco  la volontà della magistratura di mettere in moto meccanismi utili a diventare un valido contraltare del potere politico di turno bisogna però riavvolgere il nastro, tornare ad aprile e ricordare cosa scrisse nero su bianco un influente magistrato italiano, Nello Rossi, già presidente di Magistratura democratica, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati e già componente del Consiglio superiore della magistratura. Che proprio ad aprile scisse, su una delle riviste più famose tra le correnti della magistratura, “Questione Giustizia”, diretta proprio da Rossi, un editoriale esplicito in cui cercò di mettere insieme alcuni temi su cui costruire una solida forma di resistenza per salvare il paese dall’ascesa dei nuovi poteri. “In moltissimi campi della vita sociale ed economica – scrive Rossi – è il giudiziario a intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall’inerzia della politica. E in società in cui ciascun individuo può ritrovarsi a far parte di una delle molte minoranze che compongano la collettività è fortissima l’esigenza di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone”.

Su quali temi? Non solo le riforme costituzionali, ovviamente. “Penso – scrive – all’affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita; alle soluzioni offerte sul terreno dell’eguaglianza di genere; alla protezione di diritti umani fondamentali come nel caso dei migranti; alle azioni a tutela dei risparmiatori e delle finanze pubbliche in contesti finanziari sempre più complicati e vorticosi; agli interventi sulla condizione dei lavoratori marginali, come i rider o i lavoratori della logistica”. E in questo quadro dunque il magistrato deve rivendicare il suo ruolo speciale nella società, anche a costo di allargare le sue prerogative: “Una funzione di garanzia che, ancora una volta, – in questo gli insegnamenti degli anni 70 sono attualissimi – non può essere assunta da un magistrato burocrate e che, ancora una volta, richiede che l’interprete attinga nel compiere le sue scelte a valori indicati nella carta costituzionale e nelle carte dei diritti che si sono venute affermando”. Al momento, per il governo, i pericoli veri per il suo futuro sembra essere quelli che arrivano dagli sgambetti che l’esecutivo continua a fare a se stesso e di quello i ministri dovrebbero occuparsi sopra ogni altra cosa. Ma temere che la magistratura più ideologizzata possa trovare un modo per costruire un’opposizione giudiziaria come è stato ai tempi di Craxi, come è stato ai tempi di Berlusconi, come è stato ai tempi di Renzi, è un’affermazione che per essere capita ha bisogno più che di dettagli di un ripasso della storia, e di un pronto intervento per rimuovere dagli occhi dei sonnambuli italiani qualche tonnellata di affettati prelibati. 

 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.