Archivio LaPresse 

Professione autocomplotto.

Il passo del gambero del governo Meloni è una minaccia per l'Italia

Claudio Cerasa

Autolesionisti in Europa, masochisti sulla crescita, indifferenti ai segnali degli investitori. Ostaggi di un cupo vittimismo. La maggioranza fa di tutto per mettersi in difficoltà da sola

Giorgia Meloni ieri ha attaccato e ha provocato e di fronte alle prime difficoltà registrate dal governo, sul fronte economia, l’ha messa giù così. “Soliti noti vorrebbero un governo tecnico. Già si fanno i nomi dei ministri, mi fa sorridere. Temo che questa speranza non si tradurrà in realtà”. Complotto! Più che concentrarsi sul complotto, come capita spesso a Meloni, sarebbe forse il caso, per la premier, di iniziare a ragionare su un tema più concreto: l’autocomplotto. Nelle ultime settimane, lo avrete notato, la maggioranza che sostiene il governo Meloni ha fatto di tutto per mettersi in difficoltà da sola. Inizia tutto a metà agosto, quando Giorgia Meloni decide di correggere la sua decisa rotta mainstream sfidando in modo goffo le banche a colpi di tasse sugli extraprofitti. È un blitz. Meloni sfrutta l’assenza del vicepremier Tajani per portare in Cdm la norma, invia il provvedimento al Mef provocando l’irritazione del ministro Giorgetti, subisce la scelta di Giorgetti di non partecipare alla conferenza stampa organizzata dopo il Cdm per spiegare il senso della norma e osserva nei giorni successivi l’iter del provvedimento fortissimamente voluto dal nostro signore dei complotti: Giovanbattista Fazzolari.

  

E l’iter è ormai sotto gli occhi di tutti: Meloni prima difende il provvedimento, poi osserva la preoccupazione dei mercati, quindi osserva le reazioni degli osservatori internazionali, poi incassa una sonora bocciatura da parte di Marina Berlusconi e infine decide di correggere in fretta e furia la norma non eliminandola ma svuotandola. Il passaggio sugli extraprofitti è il manifesto della nuova faticosa fase del melonismo. Basta un nulla, una sciocchezza, un gesto demagogico per far sì che i pregiudizi su Meloni e sul suo governo tornino a prendere improvvisamente il sopravvento sui giudizi legati all’azione di governo. Meloni ha trascorso buona parte dei suoi primi dieci mesi alla guida dell’Italia rassicurando su quello che il suo governo non sarebbe stato. Ma ora si ritrova in mezzo alla campagna per le europee in una condizione pericolosa.

 

Quella di chi cerca in modo affannato e deciso di ricordare che nonostante le trasformazioni messe in campo nel suo primo anno di governo in fondo la destra meloniana è sempre la stessa. Il passaggio goffo, sballato e demagogico sugli extraprofitti ha avuto l’effetto di rimettere l’Italia al centro delle preoccupazioni degli investitori (nell’ultimo mese sono usciti articoli molto critici sul governo su Economist, Washington Post, Financial Times) e ad aggravare lo stato della reputazione del governo ci hanno poi pensato altri fattori.

 

Primo: la creazione di leggi inutili, ideate per riempire i titoli dei telegiornali ma costruite in modo tale da risultare incompatibili con la realtà (vedi il decreto Urso contro il caro voli, proposto, approvato, strombazzato e poi cancellato).

Secondo: la costante e gratuita creazione di tensioni con i partner europei (vedi il caso della Germania, prima con la lettera di Meloni a Scholz, seguita dalla dichiarazione di guerra del vice di Salvini, che ha accusato il governo tedesco di voler occupare l’Italia come fecero i nazisti, stavolta con i migranti).

Terzo: la costante e caparbia volontà messa in campo dal governo, nella sua narrazione, per nascondere ogni piccolo passo europeista portato avanti da Meloni (sull’immigrazione, a parte i bisticci di due giorni fa sul piano migratorio, la premier ha seguito finora un approccio europeista, di cui si deve essere vergognata a tal punto da aver fatto di tutto per non rivendicarlo mai).

Quarto punto: la Nadef. Il governo, sui conti, ha scelto un approccio prudente, non spendaccione, ma allo stesso tempo ha offerto elementi utili per mettere in discussione la sua credibilità sul terreno forse più delicato per l’Italia: la capacità di ridurre il debito pubblico. Lo ha fatto inserendo nella Nadef un taglio irrisorio del debito pubblico (un decimale). Lo ha fatto inserendo nella Nadef una previsione di crescita del pil per il 2024 (+1,2 per cento) superiore a quella stimata dalle principali istituzioni economiche europee e mondiali (Fmi, Ocse, Commissione europea non vanno oltre lo 0,8). E lo ha fatto pur sapendo che l’assicurazione sulla vita del governo Meloni è legata a un mix delicato ma imprescindibile: conti sotto controllo, riduzione del debito, crescita robusta sostenuta dagli investimenti del Pnrr.

 

Se il Pnrr funziona, la crescita migliora. Se la crescita migliora, il debito può diminuire. Se il debito diminuisce, il governo può sperare di non essere preso sul serio quando gioca con la demagogia. Ma nel momento in cui l’ingranaggio descritto dovesse risultare inceppato, il tema da affrontare sarebbe improvvisamente un altro: di fronte a un problema che riguarda l’Italia, il governo Meloni sarebbe un acceleratore dei problemi o un acceleratore delle soluzioni?

 

Oggi per la prima volta da quando Meloni è al governo i problemi, per l’Italia, ci sono. Pochi alleati in Europa con cui costruire regole non incompatibili con l’interesse nazionale (strano che i nazisti tedeschi siano titubanti nel dare una mano all’Italia sul Patto di stabilità e sulle leggi relative agli aiuti di stato). Poche cartucce per stimolare la crescita (cosa che succede inevitabilmente se il Pnrr più che un’opportunità diventa un peso). Totale indifferenza rispetto ai segnali inviati in questi giorni dai mercati (lo spread ha toccato quota 200, gli interessi dei Btp a sei mesi sono ai massimi dal 2011 e ieri il governo, attraverso il bravo sottosegretario al Mef Federico Freni, ha lasciato intendere che inizierà a preoccuparsi solo se lo spread supererà quota 350, offrendo involontariamente l’indicazione di un bersaglio).

 

Meloni, all’orizzonte, non ha nemici veri da temere (tranne Salvini). Non ha alternative che la minacciano (neppure Salvini). Non ha problemi di consenso da monitorare (dopo un anno di governo, nessun crollo da parte del suo partito). Non ha di fronte a sé neppure un’Europa ostile (anche sul Pnrr alla fine i ricchi assegni sono stati staccati). E dunque, più che concentrarsi sul complotto (ah, i mercati!; ah, l’Europa!; ah, le lobby!; ah, il Pd!; ah, Gentiloni!), sarebbe decisamente meglio iniziare a parlare dei gravi danni che può creare all’Italia la cultura dell’autocomplotto. E, per capirci, sarebbe decisamente preferibile rendersi conto che c’è solo un grande problema da monitorare in questo momento nel nostro paese. Evitare di compiere ogni giorno passi da gigante per rimuovere i piccoli passi da gigante fatti nei primi dieci mesi di governo. Più che il passo dell’oca è il passo del gambero quello che minaccia il futuro dell’Italia.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.